“In quel tempo…”

Il Vangelo di questa domenica è un passo di Marco (2, 13-17) e narra la “chiamata” di Matteo (o Levi), che viene invitato da Gesù a seguirlo. Il brano presenta poi una risposta del Maestro agli scribi dei farisei, che gli rimproverano di mangiare e bere con i pubblicani e i peccatori: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati; io non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori».

Ora, il testo del Vangelo nella Messa odierna inizia così: «In quel tempo, Gesù uscì di nuovo lungo il mare; tutta la folla veniva a lui ed egli insegnava loro». Ebbene, se si controlla il testo greco e latino del passo, l’espressione “in quel tempo” non c’è. In greco si ha: Καὶ ἐξῆλθεν πάλιν παρὰ τὴν θάλασαν “E uscì di nuovo lungo il mare”; in latino invece si legge “Et egressus est rursus ad mare omnisque turba veniebat ad eum et docebat eos”.

Perché nella Messa viene aggiunta l’espressione “in quel tempo”, anche se assente nel testo originale? Tra l’altro, a quale “tempo” ci si riferisce? Non viene fornita, neanche nel capitolo precedente, un’indicazione che possa chiarire il preciso momento in cui è ambientato l’episodio.

Se si esaminano i testi dei Vangeli in greco e latino, non mancano passi in cui nel testo si legge espressamente “in quel tempo” o “in quei giorni”; ad es.: «Ed avvenne che in quei giorni (ἐν ἐκείναις ταῖς ἡμέραις, “in diebus illis”) Gesù venne da Nazareth di Galilea e si fece battezzare nel Giordano da Giovanni» (Marco 1, 9).

A volte ci sono anche indicazioni temporali più precise (“Ed avvenne che in un giorno di sabato attraversava campi di messi…”, Marco 2, 23), ma in genere sono legate a una discussione specifica (qui ad es. i farisei rimproverano i discepoli di Gesù che strappano le spighe, facendo “una cosa non lecita nel sabato”).

Tuttavia, se si fa un controllo attento, si nota che l’espressione iniziale “in quel tempo” costituisce in genere, nella Messa, un’aggiunta al testo originale. Ma perché?

Siccome, come si autodefiniva uno storico antico, “sum unus ex curiosis”, ho provato anzitutto il peggior metodo possibile di ricerca, cioè quello di digitare su Google “in quel tempo”. Risultato: spunta una serie di passi evangelici con quell’incipit, ma non si trova mai alcuna riflessione su questa espressione e tanto meno sull’“allargamento” di essa, nelle funzioni religiose domenicali, anche a brani che non la contengono.

Trovandomi in difficoltà, ho girato i miei dubbi al dott. Gaetano Festa, ex Direttore dei Servizi Generali ed Amministrativi del “Liceo Umberto I” di Palermo e sacerdote (“Padre Giovanni”) secondo il rito ortodosso, che come sempre mi ha fornito utilissime e interessanti indicazioni.

Anzitutto, il dott. Festa mi ha rimandato al testo completo dei “Praenotanda alla Liturgia” per la sezione “Principi generali per la celebrazione liturgica della parola di Dio” (link https://www.maranatha.it/Praenotanda/bk05page.htm). Questo lungo testo «scandisce analiticamente tutte le necessità rituali per la Liturgia della Parola». Analizzando attentamente i “Praenotanda”, il dott. Festa conclude: «Dalla lettura del testo e delle sezioni indicate ritengo che la Chiesa (e vale anche per la Chiesa ortodossa, in particolare nelle sezioni delle letture delle lettere di Paolo sempre introdotte anche fuori testo dall’invocazione “Fratelli”) inizia il canto del Vangelo con “in quel tempo” sia in termini pedagogici verso la congregazione sia per la collocazione liturgica del testo scelto. Ovviamente e al di là dei praenotanda per i cristiani ogni tempo è il tempo del kairòs, del tempo opportuno per l’incontro con quel Gesù di Nazareth reso e costituito Cristo e Kyrios dal Padre nello Spirito».

In particolare, seguendo le indicazioni di Padre Giovanni, mi sembra pertinente citare l’articolo 124 dei “Praenotanda” relativo alle letture della Messa: «L’“incipit” riporta anzitutto le parole con cui si introduce abitualmente il testo: “In quel tempo”, “In quei giorni”, “Fratelli”, “Carissimi”, “Così dice il Signore”: parole che si omettono quando c’è, nel testo stesso, una sufficiente indicazione del tempo o delle persone, oppure quando dalla natura del testo tali parole non risultano opportune. Per le singole lingue parlate, tali formule si possono variare od omettere, per disposizione delle Autorità competenti».

In conclusione, mi piace aggiungere due ulteriori mie ipotesi personali sulla suddetta aggiunta dell’espressione “in quel tempo”; tali ipotesi sono di natura ben diversa fra loro: la prima è laica e filologica, la seconda invece parte da premesse mistiche e irrazionali.

Secondo la prima prospettiva, “letteraria”, un brano testuale, qualunque esso sia, richiede un’introduzione, un incipit (come il “c’era una volta” iniziale delle fiabe), una sorta di “contestualizzazione” (per quanto possa essere vaga); da qui potrebbe derivare l’inserimento di “in quel tempo” anche dove manca nel testo evangelico originale, pur di “introdurlo” ai fedeli, assumendo così un tono “didascalico” più esplicito e attirando l’attenzione degli ascoltatori.

La seconda ipotesi è molto più “filosofica” (e sicuramente fuori rotta), ma voglio ugualmente proporla così come la ho pensata. Gesù-Dio, facendosi uomo, “entra” nel tempo e nello spazio, dimensioni che, a rigore, sono estranee a una divinità; questa, infatti, esiste “al di là” di ogni barriera spaziotemporale, in una dimensione “eterna” che, in quanto tale, è l’opposto della condizione umana. Dunque, collocare la predicazione di Gesù-Uomo “in un tempo”, “in quel tempo”, “in quei giorni”, è il modo di evidenziare quello “spazio-tempo” in cui Egli ha camminato su questa terra, condividendo con gli umani questa esperienza “inaudita” per un Essere divino, per sua natura estraneo al tempo e allo spazio (pur essendone, secondo la fede, creatore).

Ognuno scelga l’ipotesi che preferisce e anzi, come è sicuramente possibile, ne prospetti altre. Coloro invece che preferiscono dedicarsi a problemi meno astratti, lo facciano senz’altro: “in questo tempo” capita sempre più spesso.

Di Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico "Andrea D'Oria" e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all'Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E' sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.

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