Come ha scritto Salvo Palazzolo su “Repubblica” l’altro ieri, poco prima di salire sull’aereo che doveva trasportarlo in quella che prima era stata definita “località segreta” e poi è stata apertamente identificata con il carcere “di massima sicurezza” a L’Aquila, il boss catturato ha chiesto carta e penna e ha scritto di suo pugno la seguente solenne dichiarazione: «I carabinieri del ROS e del GIS mi hanno trattato con grande rispetto e umanità. Palermo, 16 gennaio 2023»; seguiva la firma (e se avesse avuto a disposizione un timbro l’avrebbe messo pure).
A me questa “esternazione” ha subito ricordato le parole che il boss don Mariano Arena rivolge al capitano Bellodi nel “Giorno della civetta” di Leonardo Sciascia: «Lei, anche se mi inchioderà su queste carte come un Cristo, lei è un uomo». Sentendosi definire “un uomo”, il capitano Bellodi replica «con una certa emozione»: «Anche lei»; e Sciascia, magistralmente, commenta poco dopo: «così don Mariano ricostruiva il mondo dei sentimenti, delle leggi, dei rapporti umani. E quale altra nazione poteva avere del mondo, se intorno a lui la voce del diritto era stata sempre soffocata dalla forza e il vento degli avvenimenti aveva soltanto cangiato il colore delle parole su una realtà immobile e putrida?».
Don Mariano, del resto, motiva così l’epiteto di “uomo” attribuito al capitano: «Perché da questo posto dove lei si trova è facile mettere il piede sulla faccia di un uomo: e lei invece ha rispetto… Da persone che stanno dove sta lei, dove sta il brigadiere, molti anni addietro io ho avuto offesa peggiore della morte: un ufficiale come lei mi ha schiaffeggiato; e giù, nelle camere di sicurezza, un maresciallo mi appoggiava la brace del suo sigaro alla pianta dei piedi, e rideva… E io dico: si può più dormire quando si è stati offesi così?».
Le analogie con i fatti recenti sono di un’evidenza assoluta.
Nel romanzo sciasciano, don Mariano è la figura emblematica del “padrino” mafioso, sicuro di sé, orgoglioso, assolutamente convinto della propria visione del mondo, per nulla timoroso che “la voce del diritto” possa essere riesumata dal “vento degli avvenimenti”. La sua sicumera si basa sulla convinzione radicata che ogni lotta al potere mafioso sia persa in partenza («A me non vi ci porta nemmeno Dio»), dato che esso si avvale costantemente dell’omertà terrorizzata delle persone e di connivenze sociopolitiche a tutti i livelli.
La mentalità siciliana è portata dalla sua contorta natura pirandelliana a pensare sempre che 2+2 non debba fare necessariamente 4. Da qui il costante dubbio cartesiano su qualunque faccia della realtà, la convinzione assidua di poter essere presi sistematicamente per fessi, la diffidenza radicata in ogni notizia, l’atteggiamento da San Tommaso di fronte a qualunque notizia oggettiva. Non a caso in questi giorni, sulla cattura del decennale latitante, si è detto e si è ipotizzato di tutto.
In realtà però la Matematica non è un’opinione, 2+2 fa soltanto 4. E se questo è vero, in questo caso ciò significa tre cose, indubbie e oggettive:
1) che la latitanza del boss, lungi dall’essere un fatto che deve destare meraviglia e scalpore, è stata assolutamente normale in un contesto in cui il cancro mafioso ha diramato da tempo le sue letali metastasi in tutto l’organismo sociale (basta sentire le dichiarazioni “neutre” e vagamente omertose dei cittadini di Campobello di Mazara e di Castelvetrano); sorprendente, semmai, sarebbe stato l’opposto, e cioè che un capomafia in piena attività operativa nel territorio da lui controllato avesse qualche timore o (pura utopia) fosse “denunciato” alle autorità;
2) che il latitante non aveva nessuna intenzione di lasciarsi catturare (lo testimonia anche la sua abitazione accessoriata con palestra, gioielli, abiti griffati, profumi costosi, Viagra, calendari di donne nude, la sua vita “normale” garantita da compiacenti prestanome e complici influenti, la sua sicumera assoluta nel varcare l’ingresso della clinica dove era curato); del resto, se andassi di tua volontà a farti arrestare, non porteresti al polso il Franck Muller da 35.000 euro ma lo affideresti a tuo cugino, a tuo zio, a tua sorella, a tuo cognato, alla famiglia insomma, non certo allo Stato;
3) che la cattura “eccellente” non cambia di un millimetro la realtà di una società che convive (volente o nolente) con un’illegalità così diffusa e così radicata da non modificare certo il proprio assetto per l’arresto di una sola persona, per quanto importante e influente.
Se torniamo allora all’esternazione citata all’inizio («I carabinieri del ROS e del GIS mi hanno trattato con grande rispetto e umanità»), risulta abbastanza chiaro che questo “onore delle armi” non è una dichiarazione di debolezza, ma anzi nasce dalla consapevolezza di chi (anche nel momento dell’apparente “sconfitta”) ostenta il desiderio di mostrare (a chi?) che mantiene il controllo di sé e della situazione, come se stesse dichiarando: «Voi mi arrestate e io vi certifico che siete stati bravi: ve lo dichiaro con tanto di data e firma, “hic et nunc”; e la mia firma, la firma di uno che ha sempre utilizzato altre identità di comodo, testimonia che qui e ora, con tanto di data storica “16 gennaio 2023”, mi riprendo la mia identità e ritorno ad esistere nel vostro tempo e nel vostro spazio».
Consapevole di questo, il procuratore nazionale antimafia Giovanni Melillo ieri ha dichiarato a “Repubblica”, a proposito del “rispetto” con cui è stato trattato il boss: «Come dovrebbe essere sempre, per qualsiasi uomo: la vita e la dignità del quale spetti allo Stato tutelare».
Non a caso, la dichiarazione firmata dal boss proviene da chi sa benissimo che lo Stato parte da premesse morali, ideologiche, culturali, del tutto opposte rispetto a ciò che è stata la sua intera esistenza: il “grande rispetto” e l’“umanità”, infatti, non hanno mai fatto parte della mentalità di chi ha vissuto, fin dall’adolescenza, nel crimine, nell’illegalità, nella violenza bestiale (eseguendo materialmente e ordinando delitti odiosi e disumani), nell’arrogante contrapposizione fra la sua società “alternativa” (quanto mai reale) e la società “ideale” che lo Stato dovrebbe garantire.
Il “grande rispetto”, nella società “alternativa”, non si porta ai “mezzi uomini”, agli “ominicchi”, ai («con rispetto parlando») pigliainculo, ai “quaquaraquà”, ma solo agli “uomini”, che però sono «pochissimi». E forse il capitano Bellodi avrebbe fatto meglio a non provare quella “certa emozione” lasciandosi incantare per un attimo dalle disquisizioni esistenziali di don Mariano, non senza sentire subito dopo un certo “disagio”.
In conclusione, non serve a niente, per i carabinieri del ROS e del GIS, che un criminale incallito (che ha già lasciato intendere di non aver nessuna intenzione di “pentirsi”) ne elogi il “grande rispetto” e l’“umanità”.
Servirebbe invece che tutti i cittadini (tutti, anche quelli più realisti del re) lodassero l’altissima professionalità delle forze dell’ordine, che tutti riconoscessero il prezioso lavoro svolto da investigatori schivi quanto abilissimi, che nessuno si cullasse più in dietrologie più o meno fantascientifiche. Solo così si potrà evitare che la “giornata di festa” (che il/la presidente del consiglio ha forse troppo frettolosamente auspicato a ricordo del 16 gennaio) non resti un fatto soltanto esteriore, incapace di cambiare una realtà ancora fortemente infettata da un male che appare (lui sì) quasi incurabile.