Nel lontano 1959, quando io avevo cinque anni, mio padre acquistò il nostro primo registratore vocale, un magnetofono G 256 della ditta Geloso (di Milano, viale Brenta).
Trattandosi di un Geloso, lo conservo ancora “gelosamente”; e funziona ancora, ammesso che si voglia provare la suggestione di utilizzare gli antidiluviani nastri di colore marroncino che si inserivano nelle due bobine girevoli.
Il libretto delle istruzioni, anch’esso superstite al tempo, decanta le doti di questo “apparecchio di classe professionale”: 1) la dimensione e peso ridottissimi, “così da rendere facilissimo e comodo il trasporto e possibile la sistemazione entro un normale cassetto di scrivania”; 2) l’agganciamento automatico del nastro nella bobina vuota; 3) il telaio isolato rispetto alla rete elettrica di alimentazione, “per cui può essere usato con la massima sicurezza in qualsiasi circostanza, senza dovere ricorrere ad un trasformatore separatore”.
Il magnetofono aveva quattro tasti rotondi di diverso colore: il verde per l’ascolto, il rosso per la registrazione (previo collegamento di un microfono), il giallo per il riavvolgimento e il nero per lo stop. Per andare avanti rapidamente (il tasto “fast forward” di oggi) esisteva una levetta da spostare verso sinistra (con la scritta inequivocabile “avanti rapido”). Da bambino mi divertivo un mondo a schiacciare i tasti che facevano un sonoro “clak” quando erano pressati.
Il prezzo di vendita del registratore era altissimo: ben 38.000 lire del tempo. Per ammortizzare lo shock economico della spesa, il libretto esalta le applicazioni universali del prodotto: “Esso serve tanto al dirigente che vuol dettare a sua discrezione in qualunque momento disposizioni e lettere, quanto al dattilografo che vuol trascrivere con comodità e rapidità la dettatura, tanto allo studente che vuole imparare con sicurezza rapidamente, quanto allo psicanalista, o al medico radiologico, all’insegnante, al pedagogo, all’attore, al cantante, al dilettante musicista”; inoltre “esso è prezioso per chi studia lingue e dizione e vuole mantenere sotto controllo acustico la sua pronuncia e le sue inflessioni vocali”; in particolare, poi, “può registrare la voce di persone care e quanto avviene sotto forma di parole, suoni musicali o rumorio durante avvenimenti qualsiasi e cerimonie, consentendone il perfetto riascolto anche a distanza di molti anni”.
Indicazione profetica, quest’ultima. Mi rimangono infatti moltissime registrazioni realizzate con quel glorioso magnetofono, dal 1959 al 1968, quando fu spodestato dall’avvento di un più prosaico registratore a cassetta.
In particolare, conservo la registrazione integrale della Messa della mia I comunione (20 agosto 1961), una serie straordinaria di “abbanniatine” di venditori ambulanti per le strade di Bagheria (registrate da mio padre con la prolunga dal balcone della casa dei nonni in via Leonforte), ma soprattutto tanti momenti di vita familiare, indimenticabili di per sé e poi immortalati dall’intuito e dalla passione di mio padre.
Possiedo ore di registrazione della mia vocina di “picciridduzzu”, che legge correntemente (come facevo dall’età di 4 anni) favolette, raccontini, storie di Topolino e buffe filastrocche.
C’è persino una mia declamazione in latino de “La volpe e l’uva” di Fedro; risale al 1960 e avevo sei anni. Forse stavo contribuendo a guidare il fato a indirizzarmi verso la mia futura attività di classicista; ma a udire l’enfasi grottesca con cui scandivo i versi di Fedro (“Fame coacta vulpes alta in vinea / uvam adpetebat…”) mi viene il dubbio che il mio atteggiamento verso il destino futuro fosse allora alquanto irriverente e beffardo.