Le notizie che la mitologia greca conosceva a proposito di Paride sono così riassunte nel III libro della Biblioteca dello Pseudo-Apollodoro: “[A Priamo] nasce un primo figlio, Ettore. Stava per nascere il secondo quando Ecuba sognò di partorire un tizzone ardente che divorava tutta la città e la bruciava. Quando apprese da Ecuba il sogno, Priamo mandò a chiamare il figlio Esaco, che dal nonno materno Merope aveva appreso l’arte di interpretare i sogni. Esaco disse che il bambino avrebbe causato la rovina della patria ed esortò a esporlo. Quando il bambino nasce, Priamo lo consegna a un servo perché lo porti sull’Ida e lo esponga: il nome del servo era Agelao. Il bambino, esposto da lui, fu nutrito per cinque giorni da un’orsa. Agelao, ritrovatolo sano e salvo, lo prende e lo porta in campagna dove lo alleva come figlio suo dandogli il nome di Paride. Quando diventò grande, Paride, che superava molti coetanei per forza e bellezza, fu soprannominato Alessandro perché respingeva gli assalti dei briganti e proteggeva le greggi. Non molto tempo dopo egli ritrovò i suoi genitori… Ettore sposa Andromaca figlia di Eezione, Alessandro Enone figlia del fiume Cebreno. Costei, che aveva appreso da Rea l’arte profetica, avvertì Alessandro di non prendere il mare alla volta di Elena. Non riuscendo a convincerlo, gli disse che, se fosse stato ferito, si recasse da lei, perché lei sola era in grado di curarlo. Alessandro rapì (ἁρπάσαι) Elena da Sparta ma, durante l’assedio di Troia, quando Filottete lo ferì con le frecce di Eracle, ritornò da Enone, sull’Ida. Lei però, che gli serbava rancore, si rifiutò di curarlo. Alessandro fu riportato a Troia e morì. Enone, che nel frattempo si era pentita, andò a portargli i farmaci che servivano alla cura, ma lo trovò morto e si impiccò” (III 12, 148-155 passim, trad. Ciani).
Il nome Ἀλέξανδρος significa propr. “colui che allontana i guerrieri (nemici)”, essendo composto da ἀλέξω ed ἀνήρ; ma nell’Iliade il nome non esprime affatto le caratteristiche dell’eroe e quindi non risulta un omen, un presagio della sorte di chi lo porta: il bell’Alessandro infatti, almeno nella prima parte del poema, tende ad evitare i combattimenti corpo a corpo e se la dà a gambe quando vede un nemico pericoloso (cfr. Il. III 30-37, ove fugge alla vista di Menelao); si potrebbe pertanto ritenere che il nome sia stato a un certo punto sentito come antifrastico.
Le suddette notizie sull’infanzia di Paride, riportate nella Biblioteca, sono particolarmente significative; come scrive Paolo Scarpi, “l’esposizione e l’intervento dell’orsa… sembrano collocare Paride Alessandro in una inequivocabile dimensione eroica. Il racconto di questa fase della vita del figlio di Priamo pare infatti seguire il tracciato di un rito iniziatico, di cui vengono sottolineate le tappe fondamentali, come l’allontanamento dal gruppo d’origine e la fase di margine, l’anziano iniziatore e la fase pedagogica, l’imposizione del nome e il ritorno nella comunità degli adulti. Ma, se il sogno di Ecuba preannuncia il ruolo distruttivo di Paride Alessandro per Ilio, l’orsa, connessa con l’universo femminile…, gli attribuisce dei contorni per lo meno equivoci, quasi a indicare come egli non esca dall’universo femminile in cui sono relegati i giovani prepuberi” (Apollodoro – I miti greci, A. Mondadori, Milano 19962, p. 587). Eroismo e carattere “femmineo” sono in effetti connotazioni costanti di Paride, come si vedrà nell’analisi del personaggio nell’Iliade.
Le notizie riportate nella Biblioteca, pur essendo la risultante di una serie di narrazioni mitologiche risalenti a tempi e luoghi diversi, sono utili per rendere l’idea di ciò che il poeta dell’liade doveva conoscere su Paride.
Altrettanto doveva sapere il pubblico degli ascoltatori della performance aedica, grazie soprattutto alle rapsodie confluite nel cosiddetto Ciclo, che raccontava le vicende epiche escluse dai due poemi omerici (i Canti Ciprii narravano le origini e l’inizio della guerra, l’Etiopide le ultime imprese di Achille, la Distruzione di Ilio e La piccola Iliade gli eventi conclusivi del conflitto, i Nostoi i “ritorni” degli eroi, la Telegonia la fine di Odisseo).
Nell’Iliade mancano molti riferimenti presenti nel compendio dello Pseudo-Apollodoro: le vicende dell’infanzia e della prima giovinezza di Paride, il suo matrimonio con Enone, l’allusione alla sua fine per opera di Filottete. Compaiono invece, ma in modo elusivo e contraddittorio, le notizie relative al giudizio di Paride e al “rapimento” di Elena; infine è presentata proletticamente la notizia dell’uccisione di Achille.
Le connotazioni essenziali di Paride in Omero sono:
- la bellezza eccezionale, evidenziata dall’epiteto di θεοειδής “simile a un dio”;
- la mancanza di una corrispondente ἀρετή, che lo rende spesso vile in battaglia;
- la tendenza ad accettare i rimproveri, ad es. quello di Ettore subito dopo la fuga dalla battaglia: “Paride maledetto (Δύσπαρις), bellimbusto (εἶδος ἄριστε), donnaiuolo (γυναιμανής), seduttore (ἠπεροπευτής), / ah non fossi mai nato, o morto senza nozze!… / Ahi! Certo sghignazzano gli Achei dai lunghi capelli: / credevan che fosse gagliardo il capo, perché bellezza / è nell’aspetto (εἶδος), ma forza in cuore non c’è, non valore (ἀλκή)” (III 38-45 passim; per l’Iliade uso qui la traduzione della Calzecchi Onesti); inoltre aspre rampogne gli sono rivolte anche da Elena (cfr. III 428-437);
- la parallela tendenza a trovare scuse e giustificazioni; ad es., rispondendo alle suddette critiche di Ettore, sostiene che non gli debbano essere rinfacciati i doni di Afrodite, esprimendo una concezione fatalistica, secondo la quale l’uomo deve accettare i doni degli dèi, senza respingerli e senza pretendere di sceglierseli da sé.
- l’assenza di sensi di colpa per il ratto di Elena e per la guerra da lui provocata;
- un certo desiderio, piuttosto velleitario, di tornare ad una dimensione eroica dando prova di valore, ad es. quando sfida Menelao a duello (cfr. III 67-75) o quando alla fine del VI libro torna baldanzoso in battaglia (cfr. vv. 504-529);
- un’estrema μαχλοσύνη (“lascivia”), che lo rende inarrivabile nelle gioie del talamo.
Nel passo della Biblioteca dello Pseudo-Apollodoro precedentemente citato non si fa cenno al celebre giudizio di Paride, che è invece narrato nell’Epitome Vaticana della stessa opera (è un codice del XIV secolo, Vaticanus Graecus 950, che risale forse all’erudito bizantino Giovanni Tzetzes e riporta ampi estratti perduti della Biblioteca): “Zeus ordina a Ermes di condurre le dee da Alessandro sull’Ida, perché vengano da lui giudicate. Ad Alessandro, le dee promettono doni: Era disse che se fosse stata scelta gli avrebbe dato il dominio del mondo, Atena, la vittoria nelle guerre, Afrodite le nozze con Elena. Lui sceglie Afrodite, poi si imbarca sulle navi che gli ha costruito Fereclo e salpa alla volta di Sparta” (3, 2).
Lo stesso passo presenta una più analitica versione del “ratto” di Elena: “Per nove giorni è ospite di Menelao, ma il decimo giorno – mentre Menelao è a Creta per la sepoltura del nonno materno Catreo – persuade (πείθει) Elena ad andarsene con lui. Lei abbandona Ermione, la figlia di nove anni, carica sulle navi la maggior parte dei suoi averi e salpa con Alessandro durante la notte. Ma Era suscita contro di loro una violenta tempesta, che li costringe ad approdare a Sidone. Per proteggersi da un eventuale inseguimento, Alessando indugiò per molto tempo in Fenicia e a Cipro. Quando non ebbe più timore di essere inseguito, si recò a Troia con Elena” (3, 3-4).
Il dato riportato dall’Epitome, relativo a Paride che “persuade” (πείθει) Elena, è in contraddizione con la notizia del rapimento; inoltre in un altro breve estratto dell’Epitome si afferma che “Alessandro rapisce (ἁρπάζει) Elena, per istigazione di Zeus” (3, 1 S).
Ad una sorta di compromesso tra le due versioni mira forse Erodoto, allorché, commentando la causa tradizionale della guerra di Troia, dichiara che “il rapire donne (ἁρπάζειν γυναῖκας) è considerata azione da malfattori, ma il darsi cura di vendicarle è azione da dissennati, mentre da saggi è il non preoccuparsene, perché è chiaro che se non avessero voluto non sarebbero state rapite” (I 4, 2, trad. Izzo D’Accinni). Erodoto qui condanna moralisticamente Elena per il consenso dato al suo “rapimento”; ma il dubbio tra “ratto” e “fuga consensuale” era già presente nell’Iliade, che sembra conoscere (e contaminare) le due diverse versioni del fatto.
Paride, in ogni caso, appare come colui che tradisce l’ospitalità di Menelao; tale connotazione è ben evidenziata nell’Iliade e diventò topica nella letteratura successiva; ad es. il poeta corale Ibico, in un carme encomiastico per il giovane Policrate, futuro tiranno di Samo, rifiuta, col procedimento della recusatio, di cantare Paride “il traditore degli ospiti” (fr. 282 Page, v. 11), mostrando così un rifiuto sostanziale della tematica epica.
Nell’Iliade, quando nel “talamo odoroso di balsami” invita Elena a giacere con lui, Paride afferma di essere vittima dell’ἔρως: “mai così il desiderio (ἔρως) avviluppò il mio cuore, / neppure quanto in principio da Lacedemone amabile / ti rapii (ἁρπάξας) e per mare partii sulle navi, / e nell’isola Cranae mi t’unii d’amore e di letto (φιλότητι καὶ εὐνῇ), / tanto ti bramo (ἔραμαι) adesso, mi vince la dolce passione (γλυκὺς ἵμερος)” (cfr. III 442-446).
Queste parole sembrano alludere esplicitamente ad un “ratto” di Elena; e al rapimento fanno pensare anche altri riferimenti presenti nel poema, che fanno della donna una vittima della violenza:
1) un verso ripetuto due volte allude al desiderio, da parte dei Greci, di vendicare “d’Elena le ribellioni e i gemiti” (II 356 = 590);
2) nel VI libro, allorché Ecuba va a prendere un peplo da offrire ad Atena, vengono ricordati i pepli che Alessandro aveva portato da Sidone, “nel viaggio in cui condusse (ἀνήγαγεν) Elena” (VI 292);
3) Elena viene talora difesa, ad esempio da Priamo (“non certo tu sei colpevole davanti a me, gli dèi son colpevoli”, III 164) e anche da Ettore (“mai ho udito da te mala parola o disprezzo”, XXIV 767); 4) sempre Elena, nel lamento funebre sul cadavere di Ettore, dice così: “il mio sposo è Alessandro simile ai numi, / che m’ha condotto (ἄγαγε) a Troia; ma fossi morta prima” (XXIV 763-764).
Tuttavia da altri passi del poema sembra di capire che vi fosse stato un consenso della donna, tale da renderla colpevole e odiosa a se stessa e agli altri:
1) Elena dice a Priamo, deplorando la propria decisione: “oh se mi fosse piaciuta morte crudele, quando qui / il figlio tuo seguii (ἑπόμην), lasciando talamo e amici,/ e la figlioletta tenera, e le compagne amabili” (III 173-175);
2) Afrodite, alludendo maliziosamente ad Elena, dice a Zeus: “Certo Ciprigna ha spinto qualcuna delle Achee / a seguire i Troiani, ch’ella ama tanto adesso” (V 422-423);
3) una condanna di Elena è evidente anche in una battuta di Achille (“per la funesta Elena combatto coi Teucri” XIX 325);
4) Elena riferisce più volte i giudizi negativi che l’opinione pubblica formula su di lei (“la molta vergogna che ho io”, III 242; “tutti m’hanno in orrore”, XXIV 775);
5) ella inoltre pronuncia spesso contro di sé esplicite parole di accusa: “cagna maligna, agghiacciante” (VI 344), “cagna” (VI 356), “ma fossi morta prima” (XXIV 764).
È dunque probabile che la fuga di Elena da Sparta costituisse in Omero, come scrive Di Benedetto, “un evento plurimotivato, e in questo evento la partecipazione consensuale di Elena si accompagnava all’iniziativa di Paride e a un intervento della dea” (V. Di Benedetto, Nel laboratorio di Omero, Einaudi Paperbacks, Torino 1994, p. 337).
Il giudizio sull’iniziativa di Paride resta nel complesso incerto; non è sicuro che l’eroe abbia operato un’ἁρπαγή in piena regola. L’aiuto di Afrodite e il fascino di Paride inducono però a credere che di vero “ratto” non sia proprio il caso di parlare.
Del resto la scena nel talamo dimostra che un “ratto” può essere anche qualcosa di puramente psicologico, un “condurre”, un “trascinare” la volontà altrui, attraverso le armi micidiali della seduzione e del piacere. E nessuno più di Paride sapeva maneggiare queste armi.
Nel VI libro dell’Iliade (cfr. vv. 321-367), Ettore si reca nella bella dimora di Elena e Paride; questi si trova (tanto per cambiare!) nel talamo, intento a lucidare le sue “armi belle”; Elena è accanto a lui, occupata a dirigere i lavori delle ancelle. È questa la seconda occasione in cui i due fratelli sono messi a confronto (cfr. III 38 ss.); ma questa volta Ettore si limita ad esortare il fratello a riprendere il suo posto in battaglia. Più aspri sono i rimproveri di Elena: l’αἰδώς, secondo la donna, dovrebbe spingere Paride a temere la νέμεσις, la pubblica disapprovazione, almeno secondo le regole della “civiltà di vergogna”.
In questa occasione emerge la netta differenza tra Paride ed Ettore: quest’ultimo infatti poco dopo rifiuterà l’invito di Andromaca ad astenersi dalla battaglia, dicendo di “aver vergogna” (αἰδέομαι) dei Troiani e delle Troiane (VI 442), mentre Paride non si cura dell’αἰδώς, non ritiene la vergogna insopportabile e non si preoccupa minimamente del giudizio degli altri.
È il momento peggiore per Paride: tormentato interiormente, rimbrottato dal fratello, detestato dalla moglie, giudicato negativamente dai Troiani e dagli Achei. Nondimeno, ancora una volta il bellissimo eroe annuncia il suo imminente ritorno in battaglia e, alla fine del libro, “vestite le belle armi, ricche di bronzo” (VI 504), corre a riprendere il suo posto nell’esercito.
Nel complesso il VI libro lascia presagire nuovi sviluppi nella figura di Paride, con un’attesa “di fargli riprendere il suo posto con una parte privilegiata – e a questo ci prepara Paride stesso intento a ripulire le sue armi” (Ettore e Andromaca (Iliade VI), a cura di M. G. Ciani, con commento di E. Avezzù, Marsilio ed., Venezia 1990, p. 72).
Da quando riprende costantemente il suo posto in battaglia, Paride compare nel poema solo sporadicamente, in genere intento a colpire i nemici col suo infallibile arco.
Si notano qua e là indizi di un maggiore “decisionismo” del personaggio; ad es. nel VII libro (vv. 354 ss.) Paride in assemblea rifiuta categoricamente di riconsegnare Elena, mostrando semmai disponibilità a rendere i beni.
Si nota inoltre una sua partecipazione più attiva alla guerra, sia pure nel ruolo meno nobile di arciere che colpisce da lontano e a tradimento, evitando lo scontro fisico diretto: ad es. nell’XI libro Paride con una freccia centra a un piede Diomede, esultando smoderatamente per il colpo riuscito; resta poi insensibile alle invettive del Tidìde, che gli indirizza la solita sequela di insulti: “arciero insultatore, superbo dell’arco, vagheggino,/ se ti provassi in duello a faccia a faccia con l’armi,/ l’arco e le molte frecce non ti darebbero aiuto” (XI 385-387); ma Paride non ribatte a Diomede e continua a mietere vittime con i suoi dardi.
Quanto all’epiteto di θεοειδής (che compare ancora a XI 581, a XIII 774 e a XXIV 763), esso è talora sostituito dall’altro epiteto di δῖος (“glorioso”; cfr. VII 355, VIII 82, XIII 766) o dall’espressione formulare “Alessandro, lo sposo d’Elena chioma bella” (XI 369 e 505, XIII 766).
L’episodio più significativo per la “reintegrazione” di Paride nel contesto eroico si ha nel XIII libro, ai vv. 765-789: qui, ad Ettore che nuovamente rimprovera il fratello con le stesse parole che gli aveva rivolto nel III libro (XIII 769 = III 39), Paride replica respingendo l’accusa ingenerosa di astenersi dalla battaglia e proclamando la sua ἀλκή, il suo vigore guerriero, un vigore che Ettore stesso precedentemente gli aveva riconosciuto (ἄλκιμος ἔσσι, VI 522): “Ettore, l’ira certo ti fa accusar l’innocente./ Altre volte può darsi ch’abbia lasciato la lotta/ forse, ma non mi fece imbelle (ἀνάλκιδα) del tutto la madre” (Il. XIII 775-777).
Dopo questo episodio, l’eroe resta ai margini delle vicende del poema; ma proletticamente viene preannunziato il ruolo fondamentale che avrà in futuro: sarà lui infatti a uccidere Achille alle Porte Scee, come Ettore morente profetizza ad Achille: “Bada però, ch’io non ti sia causa dell’ira dei numi, / quel giorno che Paride e Febo Apollo con lui/ t’uccideranno, quantunque gagliardo, sopra le Scee” (XXII. 358-360).
Paride compare per l’ultima volta nel XXIV libro, confuso tra i nove figli che Priamo rimprovera aspramente prima di andare alla tenda di Achille: “Anche i figliuoli sgridava, / ingiuriando Eleno e Paride e Agatone glorioso, / Pàmmone e Antìfono, Polite forte nel grido, / e Deifobo e Ippòtoo e il nobile Dios” (vv. 248-251). Paride qui è “uno dei tanti”, citato “in una sequenza di nomi spersonalizzante” (V. Di Benedetto, op. cit., p. 194), che conferma l’esaurimento della sua funzione nel poema.
L’ultima volta che viene citato il nome dell’eroe è al v. 763: Elena, intonando il lamento funebre sul cadavere di Ettore, ha un’ultima espressione di fastidio verso di lui (ed anche verso di sé): “Ah il mio sposo è Alessandro simile ai numi, / che m’ha condotto a Troia; ma fossi morta prima” (vv. 764-765).
Paride dunque, al termine dell’Iliade, è ridimensionato, è ridotto al rango di una comparsa, di un ragazzino rimbrottato dal padre per una marachella, di un marito criticato dalla moglie.
In definitiva, la vicenda di Paride nel poema non presenta uno sviluppo coerente, che conduca ad una sua punizione per aver provocato la guerra o almeno a una decisione definitiva tra aspetto eroico ed aspetto antieroico.
Anzi, la progressiva eclissi del personaggio (che presenta gli sviluppi più interessanti nel III, nel VI e nel XIII libro) attesta che la sua funzione non viene più ritenuta essenziale dal narratore, che sempre più concentra la sua attenzione su Achille ed Ettore.
Nel complesso non resta che affermare che “la figura di Paride appare con tratti mutevoli: a volte è un guerriero forte e moralmente neutro, a volte diventa un ‘eroe negativo’” (F. Codino, Introduzione a Omero, Einaudi, Torino 1990, p. 92).
La fine di Paride, secondo il mito, avvenne per mano di un infallibile arciere come lui, Filottete, che lo colpì con una freccia avvelenata.