Nel 1889 il British Museum di Londra acquistò un papiro egizio risalente al II secolo d.C., che fu pubblicato due anni dopo dal Kenyon; conteneva otto mimiambi (μιμίαμβοι), cioè mimi in trimetri giambici scazonti (il metro che era stato creato dal giambografo Ipponatte). Si tratta di componimenti brevi, della lunghezza media di un centinaio di versi ciascuno, l’ultimo dei quali è in condizioni estremamente lacunose.
Kenyon li attribuì al poeta ellenistico Eroda in base alla tradizione indiretta, dato che alcune citazioni antiche combaciavano con i testi del papiro. Ma di questo autore è incerto anche il nome, citato dalle fonti antiche ora come Eroda (Ἡρώδας o Ἡρώδης) ora come Ἡρώνδας (ad es. nei codici di Ateneo), con un’uscita analoga a quella dei nomi beotici (cfr. Ἐπαμεινώνδας “Epaminonda”). Varie sono le ipotesi sulla patria del poeta: si è pensato a Siracusa, a Cos, ad Alessandria, perfino ad Atene.
Piuttosto incerta è la cronologia: nel I mimiambo al v. 30 viene citato “il tempio degli dèi / fratelli” con riferimento al tempio in onore di Tolomeo Filadelfo ed Arsinoe; nello stesso passo si allude a un sovrano χρηστός (v. 30), cioè “buono, onesto” (forse Tolomeo Evergete, salito al trono nel 247 a.C.). Alcuni riferimenti interni inducono a collocare il IV mimiambo fra il 276 e il 260 a.C.; nel complesso si oscilla fra una datazione “alta” (all’epoca di Tolomeo Filadelfo, 285-247 a.C.) e una datazione più bassa (ai tempi dell’Evergete, 247-221 a.C.). L’ipotesi più convincente colloca l’ἀκμή del poeta fra il 275 e il 260 a.C.
Considerata la notevole “letterarietà” dei mimiambi, si ritiene in genere che essi dovessero essere soltanto letti e non rappresentati; non manca però chi crede che potessero essere recitati (anche in forma monologica, come lettura da parte di un unico attore-declamatore). In effetti non sono mancati esperimenti di rappresentazioni dei mimiambi di Eroda, che hanno anche ottenuto successo; ad es. per una rappresentazione del Calzolaio a Paestum, cfr. M. Tibaldi Chiesa, “Gli spettacoli classici a Pesto”, in “Dioniso” III, 1932, nn. 3-4, pp. 261 ss.
I mimiambi di Eroda presentano brevi scenette di vita quotidiana, caratterizzate da vivace umorismo. Si nota un’evidente contaminazione di diversi generi: ambientazione e tipologia di personaggi derivano dal mimo, ma il metro e il dialetto ricordano la poesia giambica, mentre lo stile e la caratterizzazione dei personaggi sono affini alla commedia (soprattutto la νέα), ma anche ai δράματα di Epicarmo.
L’VIII mimiambo (“Il sogno”), di carattere allegorico, esplicita la dipendenza da Ipponatte, preferito nel periodo ellenistico ad Archiloco per le sue caratteristiche “pre-ellenistiche” di poeta dotto e propenso alla sperimentazione; il componimento inoltre costituisce un’apologia del poeta contro i suoi detrattori, dubbiosamente identificati con Callimaco e con Teocrito.
Le lodi eccelse rivolte ad Eroda al momento della scoperta del papiro, alla fine dell’Ottocento, si giustificavano con il contesto storico-politico, ancora influenzato dal positivismo e dalle tendenze letterarie “naturalistiche” e realistiche. Ne sono un esempio le parole enfatiche con cui nel 1892 il primo traduttore italiano di Eroda, Giovanni Setti, introduceva l’opera: “Salute al poeta redivivo! Col favore di Apollo, il quale pur nelle sconsolate penombre dei regni inferi assiste i suoi alunni, egli ha rinavigato or ora la palude Stige, ed eccolo qui dinanzi a noi. Ha vinto il silenzio di venti secoli. È una vera evocazione o resurrezione!” (Eroda -I mimiambi, rist. anast. con introduzione di S. Musitelli, Bietti, Torino 1973. p. 3).
In seguito, però, cessati i primi entusiasmi, del “poeta redivivo” si è spesso rilevata la superficialità, l’assenza di una vera ed efficace analisi dei personaggi, assimilati a banali e scontate “macchiette”.
Tuttavia a tratti emerge qualche notazione psicologica non priva di spessore; inoltre sono innegabili la vivacità dell’insieme, la maliziosa ironia dell’autore, l’ottica deformante, la dottrina sapiente che si cela dietro l’apparente semplicità del contesto, la capacità di dissacrare i valori morali tradizionali.
Chiaramente, non esiste alcuna intenzione sociopolitica ed è fuorviante considerare Eroda come un portavoce delle classi subalterne. L’alta elaborazione formale e la letterarietà dell’operazione sono evidenti e l’attenzione al mondo del popolo va considerata come una divagazione per lettori aristocratici, colti e pronti a sorridere di questo scenario “umile”.
Anche il linguaggio utilizzato da Eroda contamina, con un’operazione dotta, lo ionico di Ipponatte con forme doriche, eoliche ed attiche (talora di provenienza tragica). Si ha una curiosa miscela di forme colloquiali (tipiche del mimo) e di termini “alti”; numerosi sono gli hapax.
Lo stile risente dei vari influssi ricordati (Ipponatte, Sofrone, i comici); frequenti sono i proverbi, le espressioni gnomiche e le figure retoriche. Il registro usato, pur essendo molto esplicito, non è così volgare come una volta moralisticamente si riteneva.
In particolare, il VII mimiambo, “Il calzolaio” (Σκυτεύς), presenta un gustoso spaccato di vita quotidiana.
Una donna, Metrò, entra nella bottega del calzolaio Cerdone in compagnia di alcune amiche e lo invita a mostrar loro qualche suo lavoro. Il colloquio fra il calzolaio e le sue clienti (ma l’unica che parla fra loro è Metrò) ripropone i normali cliché di una contrattazione da bazar: Cerdone lamenta i guadagni inadeguati, la crisi, le difficoltà economiche, mentre Metrò mira a spendere il meno possibile e a fare bella figura con le amiche (ma anche con il calzolaio stesso, nei confronti del quale vuole farsi dei meriti).
Le donne che vengono al negozio di Cerdone sono verosimilmente le stesse (prima fra tutte Metrò) che, nel precedente mimiambo VI (Le amiche a colloquio), discutevano a proposito di un fallo di cuoio fabbricato dallo stesso artigiano; ora però sono venute per una richiesta meno imbarazzante, cioè un paio di scarpe.
Cerdone accoglie le clienti nel modo migliore, invitando i suoi garzoni ad approntare per loro “la panca più grande” (v. 5); è però pronto a rimproverarli aspramente per la loro pigrizia. L’artigiano, sfoggiando la sua arguzia e un’irrefrenabile parlantina, inizia quindi a mostrare la sua merce; di stile quasi aristofanesco è il “catalogo” delle sue calzature: “Guardate, signore: ce n’è di tutti i tipi: / di Sicione, di Ambracia, di Nosside, lisce, pollastrine, / pappagalline, canapine, eleganti, pantofole, / ioniche borchiate, ciabatte da notte, / alte sulla caviglia, granchioline, sandali argivi, / scarlatte, da ragazzo, da passeggio” (vv. 56-61, trad. Paduano).
Praticamente impossibile è stabilire esattamente le caratteristiche delle scarpe qui elencate; il primo traduttore italiano di Eroda, Giovanni Setti, se ne rammaricava particolarmente: “La nostra conoscenza lessicale, dirò meglio, la abilità tecnica dei nostri moderni cordonniers [‘calzolai’] non riesce a somministrare la congrua e sufficiente nomenclatura a tanta varietà di stivali. Altro imbroglio pel povero traduttore che ogni momento è messo a mal partito!” (op. cit., p. 38).
Metrò chiede il prezzo degli articoli e invita il negoziante a non “sparare” cifre esagerate; egli allora la invita a proporre lei la cifra, pur reclamando “un prezzo sufficiente a sfamare i lavoratori” (v. 73). Di fronte alla più precisa richiesta della donna, Cerdone indica un paio di scarpe del prezzo di una mina, su cui è impossibile praticare uno sconto: “neanche un centesimo / si potrebbe togliere a questo prezzo, / neanche se a comprare fosse Atena in persona” (vv. 80-82).
Parallelamente, Metrò si lamenta dei prezzi e, per strappare qualche sconto, prospetta di procurare al calzolaio altre clienti (una sua amica, Ecate, sta per maritare la figlia Artacene…). A questo proposito, è il caso di ricordare che nell’antica Grecia prima del matrimonio, quando le donne passavano dalla casa del padre a quella del marito, dovevano indossare dei sandali nuovi detti appunto nymphìdes (νυμφίδες) ovvero “sandali da sposa”; questi erano allacciati dalla sposa oppure da una domestica: il gesto di allacciarsi le scarpe era l’esternazione evidente di un cambiamento radicale, di un rito di passaggio dalla vita verginale al matrimonio.
Nel mimiambo di Eroda la contrattazione fra negoziante e clienti continua, accompagnata da chiacchiere e divagazioni: Cerdone, ad es., cita una suonatrice di nome Eveteride, che è sua cliente ma gli è antipatica per i suoi pettegolezzi su sua moglie (vv. 99-103).
Il calzolaio ripiega anche sulla galanteria, sfoggiando un malizioso complimento che ricorda una celebre ode di Saffo: “non è distante dagli dei l’uomo / al quale di giorno o di notte schiudi le labbra” (v. 111-112). Non mancano toni suadenti verso la cliente, di cui viene lodata la bellezza dei piedi, nei quali le scarpe entrano perfettamente: “tutte le cose belle vanno bene alle belle” (v. 115).
Quando poi il calzolaio fa provare le scarpe alla donna, vedendo quanto il suo zoccolo sia ruvido, deplora il lavoro del collega che glielo ha fabbricato: “è un bue che vi ha fatto le scarpe!” (v. 118). Infine, l’artigiano tratta sgarbatamente un’altra cliente, affermando che nitrisce “peggio di una cavalla davanti alla porta” (v. 122); chiede infine alle donne se desiderino altro e (probabilmente “a parte”, come avverrebbe in una commedia) invita Metrò a passare da lui il nove del mese a prendersi un paio di scarpe “granchioline” come “tangente” per il suo ruolo di sensale…
Il Setti esaltava questo Mimiambo: “L’azione non potrebbe essere più semplice e comune: per essa noi assistiamo ad una delle più usuali scene della vita: ad una compera ed al relativo contratto in una bottega pubblica. Le donne, bellocce e vanerelle, vogliono roba buona ed elegante; lui, l’operaio, che ha da mantenere tredici lavoranti, dice l’ultimo prezzo, e poi mette le spalle al muro. Questa tutta la contenenza del leggiadrissimo mimo. Ma il poeta appunto non vuol altro: ritrarre modestamente con la più gran naturalezza azioni semplici e volgari. Ché questa è l’essenza del mimo: una specie di riproduzione, direi quasi fotografica, di un avvenimento qualunque. Se l’artista è abile, anche con poveri mezzi saprà conseguire un grande effetto. Ed Eroda riesce in questa scena veramente magistrale. Perché il tenue disegno è colorito con una naturalezza mirabile, variato di figurine vispe e graziose, e che sembrano vive realmente, e per dove circola una sottile vena di bonario umorismo” (op. cit., pp. 38-39).
La critica più recente esprime però maggiori riserve sul livello del componimento, che sostanzialmente è soltanto un simpatico sketch.
In fondo, con tutta la simpatia per l’antico autore di mimiambi, resta valido il severo giudizio formulato su di lui dal Perotta: “In conclusione, Eroda è un poeta mediocre. La sua comicità è troppo facile e, nel tempo stesso, tenue: egli non fa ridere, fa soltanto sorridere. Il sorriso è indubbiamente la più alta espressione del comico. Ma a una sola condizione: che sia veramente fine” (Disegno storico della letteratura greca, Milano-Messina 1972, p. 361).