Nel VI canto dell’Iliade, mentre infuria la battaglia, l’eroe greco Diomede si imbatte in Glauco, figlio di Ippoloco, capo licio alleato dei Troiani.
I due guerrieri sono entrambi “avidi di lotta” (v. 120) ma prima di affrontarsi, come vuole la consuetudine eroica, Diomede chiede l’identità dell’avversario; l’eroe è indotto anche dal ricordo delle recenti vicende, dato che poco prima gli era capitato, senza rendersene conto, di ferire addirittura Ares ed Afrodite nel furore della battaglia.
Alla richiesta dell’avversario Glauco risponde in tono malinconico, affermando che la vita e la fortuna degli uomini sono così effimere che poco importa conoscerne i nomi; la sua concezione pessimistica si esprime nel celebre paragone fra le generazioni dei mortali e le foglie (vv. 146-149): “Come le famiglie delle foglie, così sono anche le stirpi degli uomini. Le foglie, vedi, alcune il vento sparge a terra, altre poi la selva nel suo rigermogliare fa nascere, quando viene il tempo della primavera. Così le generazioni degli uomini: una nasce e l’altra sparisce” (vv. 146-149, trad. Tonna).
La similitudine fra uomini e foglie, come è noto, ha avuto un’enorme fortuna nella produzione letteraria di ogni epoca e Paese: è stata infatti riproposta molte volte, sia pure con l’introduzione di continue varianti, per esprimere i concetti di caducità e la brevità della vita, di rinascita o semplicemente di moltitudine. Il paragone ritorna, per citare solo alcuni esempi, in Mimnermo di Colofone (fr. 2 W.), Simonide di Ceo (19-20 W.), Nonno di Panopoli (Dionisiache III 248-256), Virgilio (Eneide VI 309-311), Dante (Inferno III 112-117), Percy B. Shelley (nell’ultima stanza dell’Ode to the West Wind), Paul Verlaine (nella poesia Chanson d’automne), Giuseppe Ungaretti (nella lirica Soldati), Nazim Hikmet (Foglie morte), Jacques Prévert (Les feuilles mortes, musicata da Joseph Kosma) e persino in Sciascia (in un passo de Il Consiglio d’Egitto).
Nel brano iliadico, peraltro, la similitudine delle foglie è perfettamente inserita nel contesto dell’etica omerica: al dolore esistenziale per la sorte effimera degli uomini si contrappone il culto di valori eroici come l’onore (la τιμή), la gloria (il κλέος) e la difesa delle tradizioni familiari. Dopo la sua premessa, infatti, Glauco accontenta Diomede e gli rivela di essere figlio di Ippoloco, a sua volta figlio di Bellerefonte; si dilunga poi nella narrazione delle imprese del celebre nonno.
Al termine del racconto di Glauco, Diomede pianta la lancia per terra, rinunciando al combattimento: ricorda infatti che molto tempo prima suo nonno Oineo aveva ospitato in Argolide per venti giorni Bellerofonte e i due si erano scambiati splendidi doni ospitali; dunque Glauco è per lui “ospite antico… da parte di padre” (ξεῖνος πατρώϊος… παλαιός, v. 215), sicché è impossibile ogni combattimento fra di loro.
Glauco accetta di rinunciare al duello e i due eroi si scambiano, in segno di amicizia, le armi, anche se quelle di Glauco (come il poeta non manca di sottolineare ironicamente) sono di valore molto più alto rispetto a quelle di Diomede: “Si stringevano la mano in un impegno leale. Fu allora che Zeus Cronide tolse il buon senso a Glauco! Faceva il cambio delle armi con il Tidide Diomede: armi d’oro con altre di bronzo, il valore di cento buoi contro uno di nove” (vv. 232-236, trad. Tonna).
È apparsa strana questa osservazione ironica del poeta sul “dissennato” ed eccessivo dono di Glauco, la cui “follia” viene attribuita, come al solito, all’intervento di una divinità – in questo caso Zeus – che gli “tolse il senno” (φρένας ἐξέλετο, v. 234). Non è da escludere però che anche questo dettaglio ironico abbia un carattere “prescrittivo”, sottolineando la necessità di badare alla “specularità” dei doni scambiati in occasione del genere, perché il vincolo di ospitalità non deve essere in alcun modo “sbilanciato”.
Nel complesso, Il brano presenta un esempio insolito di “duello mancato”, che si giustifica con la sacralità dell’ospitalità (ξενία); il vincolo di reciproca ospitalità è ritenuto prioritario rispetto a qualunque altro valore (in questo caso il codice guerresco, che invitava alla ricerca della gloria in battaglia contro i nemici).
È evidente l’ottica “paradigmatica” del poema omerico, che (in conformità con la funzione di “enciclopedia tribale”) descrive/prescrive alcune importanti modalità di comportamento del codice aristocratico; così i due “nemici”, appartenenti a diversi eserciti e diverse nazionalità, si riconoscono “amici” in nome della comune classe aristocratica cui appartengono e dei prioritari vincoli “privati”, familiari, che li legano. Lo scambio di doni conclusivo fra i due eroi diventa, in questa ottica, una “materializzazione” esplicita del legame personale che li unisce.
Va infine ribadito che gli eroi omerici vanno in guerra in cerca di τιμή, di gloria e – perché no – di un ricco bottino; manca in loro invece ogni motivazione “patriottica” o nazionalistica. Durante la sua lite con Agamennone, nel I libro dell’Iliade, Achille esplicita perfettamente questo concetto: «Davvero non pei Troiani bellicosi io sono venuto / a combattere qui, non contro di me son colpevoli: / mai le mie vacche han rapito o i cavalli, / mai a Ftia dai bei campi, nutrice d’eroi, / han distrutto il raccolto, poiché molti e molti nel mezzo / ci sono monti ombrosi e il mare sonante. / Ma te, o del tutto sfrontato, seguimmo, perché tu gioissi, / cercando soddisfazione per Menelao, per te, brutto cane, / da parte dei Teucri; e tu questo non pensi, non ti preoccupi» (vv. 152-160, trad. Calzecchi Onesti).