Ieri sera, in occasione di una bella cena con amici all’Arenella di Palermo (“cul-de-sac” asfissiante che fagocita migliaia di persone e di auto in uno spazio infinitesimale, ma fronteggiato da uno splendido panorama sul mare), ho dovuto fare ancora una volta i conti con l’abitudine di alcuni ristoranti, rimasta tenace anche dopo la fine della pandemia, di proporre ai clienti il menu in forma digitale.
Ora, capisco bene che in realtà non ci vuole niente a inquadrare il misterioso codice con il proprio telefonino, ad aprire l’apposita app (“va’ pìscala” fra tante app che affollano a vanvera lo smartphone…) e attendere poi con fede dogmatica che avvenga la transustanziazione del menu digitale in una forma leggibile.
Io però non ci riesco mai; è una di quelle cose in cui quel poco di intelligenza che ho si chiude irreversibilmente, per cui sono penosi i miei sforzi di fare uscire quel benedetto coniglio dal cilindro multimediale in cui è racchiuso.
Allora in genere mi rivolgo con sguardo supplichevole ai commensali, a mia moglie “in primis”, invocando aiuto; e a volte mi conforta il fatto che analoghe difficoltà siano condivise con altri e che si debba ripiegare sul sito del ristorante (trovato su Google, il nostro quinto senso) per ottenerne qualche dritta sul misterioso “menu”.
Certo, esistono ristoranti meno integralisti, ove la richiesta di un menu cartaceo ha qualche possibilità di essere esaudita; ma si ha l’impressione che in questi casi tu perda ogni residuo carisma agli occhi dei camerieri (abituati spesso a considerare i clienti come una grandissima scocciatura che turba la quiete atarassica da loro auspicata).
Ma perché non si deve tornare ai menu cartacei? Erano così belli e così vari! Vi si leggevano (anche troppo bene) i prezzi (che, a proposito, continuano a salire in modo ingiustificato)! Inoltre io (per deformazione professionale) vi notavo la scelta dei caratteri, l’impostazione tipografica, la correttezza ortografica e sintattica (ahiahi), le scelte lessicali (ne parlavo proprio qui qualche giorno fa, a proposito di un “gelato di limone vanigliato con pistacchi sabbiati e arancia disidratata”), i disegnini, le idee (in genere rare), i colori.
Ora tutto si è QR-codizzato, spaghetti e bistecche si sono mestamente trasformati in incomprensibili codici a barre e i primi minuti di una bella cena si trasformano nello stesso incubo che devono vivere alunne ed alunni quando devono cimentarsi con un’incomprensibile versione dal greco.
Pazienza, così va il mondo nell’anno venti-ventitrè (si dice così) e. v. (si dice così e non d.C.).
La cena comunque, quando sono riuscito a ordinare qualcosa facendolo emergere dalla nebbia digitale, è stata buonissima, come la bella compagnia.
Al momento di pagare il conto, avrei voluto per legittima ritorsione imporre al gestore di decodificare la mia carta di credito con qualche meccanismo cervellotico che gli facesse fare un po’ di fatica. Macchè: l’apparecchietto POS ha subito riconosciuto la mia carta, ha chiesto il PIN (Tacuda) e ha trasformato parte del mio conto in banca in un foglietto, lui sì cartaceo, che è rimasto nella mia tasca a futura memoria.