Ieri al cinema Gaudium di Palermo ho visto il bellissimo film di Matteo Garrone “Io capitano”, che alla recente Mostra del Cinema di Venezia ha vinto il Leone d’Argento (quello dedicato alla miglior regia) e il premio Mastroianni per il miglior attore esordiente, attribuito a uno dei protagonisti del film, il giovanissimo senegalese Seydou Sarr, al suo debutto nel cinema.
Il film racconta in modo asciutto e struggente «il viaggio avventuroso di Seydou e Moussa, due giovani che lasciano Dakar per raggiungere l’Europa; un’Odissea contemporanea attraverso le insidie del deserto, gli orrori dei centri di detenzione in Libia e i pericoli del mare» (www.labiennale.org).
Totalmente sottotitolato, il film presenta inizialmente il contesto attuale del Senegal, così descritto ieri dal regista Garrone in un’intervista a “Repubblica”: «Ho vissuto i primi mesi in Senegal durante la preparazione del film. È stato come ritornare indietro in un’epoca che non ho vissuto, ho immaginato una Napoli del dopoguerra, quindi una povertà molto dignitosa, una grande vitalità. La globalizzazione è arrivata forte anche lì, come succede a tutti noi, hanno il desiderio di viaggiare, andare in quell’Occidente che sembra carico di ricchezze. Solo che loro devono rischiare la vita. E questo lo sentono come un’ingiustizia di fondo a cui non sanno dare una risposta».
Il viaggio del protagonista, l’appena sedicenne Seydou (interpretato da Seydou Sarr), inizia di nascosto dalla madre e dalla famiglia (il padre è morto anni prima); con il cugino Moussa (Moustapha Fall) il ragazzo parte con il sogno di arrivare in Europa per migliorare la condizione economica sua e della sua famiglia.
Il viaggio inizia in un pullman, per continuare poi con mezzi di fortuna (pagati a caro prezzo a biechi profittatori); i due ragazzi, dopo aver comprato a caro prezzo due passaporti falsi intestati a due cittadini del Mali, devono anche attraversare a piedi un lungo tratto del Sahara, al seguito di una guida che procede indifferente ai malori e alla resa di molti migranti (particolarmente commovente la morte di stenti di una povera donna, che al giovane Seydou ricorda la madre abbandonata).
Un assalto della polizia mira, più che ai legittimi controlli, a estorcere denaro ai poveri disperati: Moussa, che dichiara di non avere soldi e (su consiglio di un tizio) ha nascosto il denaro in un poco nobile anfratto del suo corpo, viene scoperto e arrestato. Seydou continua il viaggio senza il cugino, ma con i superstiti migranti incappa nella mafia libica, che li sequestra in una prigione sottoponendo a tortura chi non telefona a casa per farsi mandare i soldi del riscatto.
Attraverso ulteriori vicissitudini Seydou arriva a Tripoli, dove – ritrovato il cugino gravemente ferito a una gamba – trova infine imbarco su una “carretta del mare”: i soldi che ha, guadagnati facendo il muratore (sotto l’ala protettiva di un connazionale che lo identifica con il proprio figlio), non basterebbero alla traversata per i due cugini; ma il trafficante nomina Seydou “capitano” della barca, gli insegna poche essenziali manovre, lo tranquillizza (“anche se ti prendono, siccome sei minorenne non ti possono fare nulla”) e gli affida la traversata di oltre cinquanta persone, fra cui donne e bambini. Seydou, pur sentendo la terribile responsabilità su di sé, riesce a condurre sani e salvi i suoi “passeggeri” fino alle coste della Sicilia.
Come si sarà capito dall’esposizione sommaria della vicenda, merito del film è quello di far comprendere che la traversata per mare, sia pure difficile e pericolosissima, è solo l’ultimo anello di una catena di sofferenze inenarrabili che uomini, donne e bambini affrontano per abbandonare una vita priva di speranze.
Il viaggio dei migranti dunque ci prospetta un’angolazione diversa rispetto a quella cui siamo abituati; come ha dichiarato il regista Garrone a “Repubblica”, si ha «una sorta di controcampo rispetto alle immagini che siamo abituati a vedere: le barche che arrivano nel Mediterraneo, a volte i migranti vengono salvati a volte no, il rituale conto dei morti. Con gli anni ci siamo abituati a immaginarli come numeri, non più come persone. Questo film mette la macchina da presa in un punto che dall’Africa guarda verso l’Europa. E prova a raccontare il loro viaggio, l’avventura. Perché in fondo sono loro gli unici portatori di una vera epica contemporanea, la loro è una sorta di odissea, è importante raccontare la storia dal loro punto di vista e far vivere quel viaggio in prima persona allo spettatore, con momenti di euforia e disperazione».
Il film, con uno stile visionario, alterna momenti quasi fiabeschi (come il sogno di Seydou, che immagina di tornare a vedere sua madre nel villaggio abbandonato) ad altri crudi ed espliciti. Anche in questo caso, Garrone afferma: «Cercavamo un racconto in cui la fiaba si fondesse con la verità necessaria al rispetto di chi ha vissuto questi orrori in prima persona e anche di chi non ce l’ha fatta. Da questo punto di vista mi ricorda certe atmosfere, a volte di “Gomorra”, come tipo di sguardo. Però al tempo stesso cerco un’astrazione fiabesca che mi rimanda all’ultimo che ho fatto, a “Pinocchio”. Ho avuto la sensazione che questi due filoni, due mondi, si fondessero. Quindi il film è raccontato con realismo, però c’è anche un’astrazione, direi un realismo magico. Sul set mi sono trovato in scene che mi sembrava di aver già vissuto. In fondo l’idea del protagonista che fugge di nascosto dai genitori alla volta del paese dei balocchi e nel viaggio scopre la violenza del mondo è alla base della fiaba di Collodi».
All’ultima domanda rivoltagli (se questo film debba essere ritenuto “politico”), il regista risponde così: «Dovrebbe chiederlo a chi lo vede. Non è tra i miei obiettivi cambiare lo sguardo del prossimo. Io racconto, faccio vivere i personaggi sullo schermo e faccio in modo che lo spettatore possa identificarsi con loro. Poi ognuno deciderà secondo la propria coscienza».
Mi sento dunque in dovere, avendo visto il film (“dovrebbe chiederlo a chi lo vede”), di rispondere che sì, questo è un film anche “politico”, se si riesce a intendere la parola “politica” nel senso antico di “cosa che riguarda la polis, la comunità”.
La realtà di oggi ogni giorno presenta centinaia di disperati che approdano sulle nostre coste (se ci riescono, dopo una durissima selezione); questa realtà non può essere negata, ignorata, minimizzata e dileggiata. Per risolverla non bastano i presunti accordi con Tunisia e Libia (quest’ultima essendo ormai, come ben evidenziato dal film, una scheggia impazzita al di fuori di ogni legalità); non bastano i drastici decreti salviniani (spesso miranti a scopi elettorali); non bastano soprattutto le lacrime di coccodrillo di fronte all’ennesima tragedia annunciata.
Occorre dunque una presa di coscienza “politica”, anche e soprattutto a livello europeo (e qui le orecchie da mercante della UE non sono meno colpevoli): preso atto definitivamente della situazione oggettiva, constatato che un ritorno alla situazione di un tempo (illusoriamente rimpianta da molti cinici nostalgici) non è più ammissibile e ripristinabile, non resta che attrezzarsi in modo serio e concreto per affrontare seriamente un fenomeno migratorio di dimensioni epocali.
Ieri al G20 di New Delhi in India il tema delle migrazioni era una (e non la principale) delle tematiche discusse dai leader mondiali; ebbene, il primo ministro britannico Rishi Sunak ha “unito le forze” con la premier Giorgia Meloni: «i due capi di Governo hanno concordato sull’esigenza di guardare agli sforzi congiunti necessari allo sviluppo dell’Africa come un’opportunità condivisa, anche rispetto al disumano traffico di persone che specula sui flussi migratori» (dal sito di “Il Sole 24 Ore”).
Bellissime parole e ottime intenzioni, che si spera diventino presto realtà reale e non dichiarazioni di intenti e proclami di facciata. Altrimenti ogni essere umano, che ancora perderà la vita solo per avere cercato di viverla dignitosamente, peserà sulle coscienze di tutti coloro che non avranno mosso un dito per salvarlo.
P.S.: Ieri, grazie al meraviglioso privilegio di essere vecchio, ho pagato solo 3 euro e 50 per vedere il film; la sala era piena di una meravigliosa bella gioventù di miei coetanei. Però, secondo me, un film come “Io capitano” dovrebbe invece essere visto da giovani veri, giovani che potrebbero vedere e capire meglio il dramma di giovani come loro (di pelle diversa, di cultura diversa, di lingua diversa, di situazione sociale diversa, ma sostanzialmente simili per tantissimi aspetti). Le scuole dovrebbero proporre (se non imporre) la visione di un film del genere, che costituisce una testimonianza umana e civile di altissimo livello.