Plinio Cecilio Secondo, nato a Como nel 61/62 d.C. da ricca famiglia di rango equestre, perse suo padre da bambino; fu allora allevato dallo zio materno, il famoso scienziato Plinio il Vecchio. Dopo i primi studi nella città natale, Plinio il Giovane (ormai lo chiameremo con il nome con cui è noto) si trasferì a Roma, dove studiò eloquenza con Quintiliano e con il retore greco Nicete Sacerdote; studiò anche (senza molto costrutto) con il filosofo stoico Musonio.
A diciassette anni, nell’ottobre del 79, Plinio si trovava a Miseno allorché, in seguito alla devastante eruzione del Vesuvio che distrusse Ercolano e Pompei, morì anche suo zio, che era accorso sui luoghi del disastro in qualità di ammiraglio della flotta e si era avventurato sotto l’eruzione per prestare aiuto e per studiare il fenomeno.
Come Plinio scrive in una lettera a Tacito, lo zio gli aveva chiesto di andare con lui nei luoghi del disastro, ma il ragazzo aveva risposto che preferiva attendere ai suoi studi: “proprio lui mi aveva assegnato un lavoro da svolgere per iscritto” (VI 16, 7); insomma, grazie alla caterva di esercizi che lo zio gli appioppava, Plinio jr. si salvò la pelle: qualche volta i compiti servono…
Plinio percorse poi un brillante ma normalissimo “cursus honorum”: fu questore, tribuno e pretore sotto Domiziano (che fu un despota spietato ma che a lui appariva come un principe rispettabile). Il fatto è che Plinio aveva un animo mite e conciliante: era una brava persona, affabile, cordiale, di non altissimo livello intellettuale ma corretto e leale. Grazie alla sua condizione facoltosa, fu anche un benefattore meritevole: nella sua Como istituì un sussidio alimentare per i bambini poveri, favorì le scuole locali assumendo maestri, fondò una biblioteca pubblica e creò delle terme.
La sua cristallina onestà brillò soprattutto nell’anno 100, allorché sostenne con l’amico Tacito l’accusa contro Mario Prisco, governatore della provincia d’Africa, accusato di concussione e omicidio.
Plinio fu entusiastico celebratore dell’imperatore Traiano, cui rivolse uno sperticato “Panegirico” (che destò in era moderna lo sdegno di Vittorio Alfieri, che ne fece una polemica riscrittura).
Nel 111 l’imperatore lo inviò in Bitinia come governatore: e qui Plinio confermò le sue doti di amministratore scrupoloso, anche se spesso incapace di prendere provvedimenti senza chiedere consiglio (ad esempio nella gestione dei primi processi ai cristiani). Ricopriva ancora questa carica quando morì, nel 113 o 114.
Fra le tante opere di Plinio (che non erano certo di livello eccelso), a noi è giunto solo l’Epistolario in 10 libri: si tratta di lettere realmente inviate, ma destinate alla pubblicazione e quindi molto “limate” e ricercate stilisticamente; affrontano temi di attualità, costituendo una sorta di interessante “blog” ante litteram che ci offre uno spaccato interessante della società romana del tempo.
Plinio fu un gigione narcisista, che si credeva un grande poeta e un grande oratore; così ne descrive la personalità Luciano Perelli: “Plinio è molto vanitoso, e va in brodo di giuggiole quando si sente giudicato il più grande letterato dell’epoca alla pari di Tacito; d’altra parte non è geloso dei suoi concorrenti, fa sperticate lodi di poeti, retori e filosofi del suo tempo, si rallegra della eccezionale fioritura di letterati e poeti nella sua età, senza accorgersi dell’inconsistenza di un’arte e di una cultura fondate sulla retorica, sull’imitazione, sull’artificio formale”. A sentire Plinio, invece, la sua epoca fioriva culturalmente quanto nessun’altra: considerava il filosofo siriano Eufrate di Tiro pari a Platone (!), esaltava un “carneade” di nome Pompeo Saturnino come poeta del livello di Catullo, mostrava in ogni occasione il suo dilettantismo velleitario a livello culturale. Ma era cordiale con gli amici e i parenti, era pronto ad aiutare il prossimo (contento poi di riceverne le lodi e di sentirsi apprezzato), amante della vita e delle sue oneste gioie (ad es. la caccia: in una lettera a Tacito si vanta di aver preso “tre cinghiali, e per di più bellissimi”, I 6); descrive la sua villa di Laurento come un paradiso terrestre, come il “buen retiro” in cui gli piace isolarsi.
Plinio si sposò tre volte: rimasto prematuramente vedovo della prima moglie, si risposò con la figlia di una ricca proprietaria terriera; morta anche costei, intorno all’anno 103, ormai quarantenne, sposò Calpurnia, molto più giovane di lui e nipote di un Calpurnio Fabato che era un influente cittadino di Como. Da nessuna delle tre mogli Plinio ebbe figli; nonostante ciò Traiano gli accordò, nel 98, lo “ius trium liberorum”, un sussidio che andava a chi di figli ne aveva almeno tre… (fatta la legge… ogni epoca è paese).
A Calpurnia, Plinio fu legato da un affetto profondo e pienamente ricambiato. A voler essere maliziosi, si può pensare che la ragazza avesse ben capito il narcisismo del marito, per cui si dava da fare per mostrarsi come la sua “fan” più accanita. Lo scrive lo stesso Plinio in una lettera alla zia paterna della consorte: “Ha in mano le mie composizioni, le legge frequentemente, le impara perfino a memoria” (“meos libellos habet, lectĭtat, ediscit etiam”, IV 19).
Il “tifo” della giovane consorte si accendeva in particolare in occasione delle “recitationes”, le conferenze pubbliche in cui il marito esibiva la sua eloquenza sui più vari argomenti in apposite e frequentatissime sale pubbliche. Lo dice, orgoglioso, ancora Plinio: “Quando mi capita di tenere una lettura pubblica, si siede vicino, separata da un tendaggio, e coglie, con orecchio bramosissimo, le lodi che mi vengono rivolte” (“laudesque nostras avidissimis auribus excĭpit”); insomma, Calpurnia fa da auditel vivente a Plinio, sta ad orecchiare non vista i commenti degli spettatori, pronta a indignarsi se le lodi rivolte al consorte sono inferiori alle sue attese e a mostrare invece gioia e soddisfazione se i giudizi sono positivi.
Non basta ancora: a detta di Plinio, Calpurnia canta i versi del marito e li modula sulla cetra, “senza essere stata ammaestrata da nessun artista ma solo dall’amore, che è il migliore dei maestri” (“non artifĭce alĭquo docente, sed amore, qui magister est optimus”). Tutto questo induce il retore comasco a una grande dichiarazione d’affetto: “Tutti questi motivi mi spingono a concepire saldissima la speranza che la nostra vicendevole intesa durerà sempre e che crescerà di giorno in giorno. Essa infatti non è innamorata della mia giovinezza o delle mie qualità fisiche, che poco per volta tramontano e deperiscono, ma della mia gloria”.
A parere di Italo Lana, questo quadro idilliaco è “grazioso e tenero in apparenza, ma spiritualmente povero nella sostanza”; infatti “per nulla appare che il marito si preoccupasse realmente della formazione della personalità della giovane moglie, la cui esistenza ha senso per lui solo in quanto essa osanni e perpetuamente adori il marito”. Forse però l’insigne studioso era troppo severo con Plinio, la cui sincera affettuosità nei confronti di Calpurnia è indubbia; e, se anche essa poteva essere condizionata all’acquiescenza e all’omaggio da parte di lei, sembra ingeneroso infierire sul buon retore, uomo sostanzialmente mediocre ma ricco di sincera e spontanea “humanitas”.
Lo dimostra un’altra lettera (VI 4) in cui Plinio scrive a Calpurnia, che nell’estate del 107 si era recata in Campania, in una villa di suo nonno, “per ragioni di salute”: il marito si rammarica di essere stato trattenuto a Roma dai suoi troppi impegni; e questo benché desiderasse stare con lei: “desideravo esserti vicino, per constatare con i miei occhi ciò che hai acquistato di forze, se ti sei messa in carne e se infine sopporti senza troppo danno i piaceri della villeggiatura e l’eccessiva dovizia della regione”. Plinio soffre di restare per tanto tempo senza notizie di sua moglie (“è infatti ragione di incertezza e di ansia non sapere nulla per alcun tempo di chi ardentemente si ama”) e nell’attesa è ansiosissimo (“temo tutto, immagino tutto e, come è proprio di chi teme, mi immagino le cose che più mi spaventano”). Chiede dunque alla moglie di scrivergli spesso (“una e anche due lettere al giorno”). Ah, quanto tempo doveva passare prima dell’invenzione di WhatsApp!
Una successiva lettera (VII 5) mostra ancora il rammarico per la separazione momentanea da Calpurnia: “è incredibile quanto mi manchi” (“incredibile est, quanto desiderio tui tenear”); Plinio resta insonne la notte e di giorno senza accorgersene si reca meccanicamente nelle stanze dove abitualmente vive la moglie, per poi tornarsene indietro deluso (“me ne ritorno dalle vuote stanze triste, dolente e quasi ne fossi stato scacciato”).
In riferimento a queste due lettere, risulta cattivello il giudizio di Jérôme Carcopino, secondo il quale dietro questi “biglietti pieni di dolcezza” si dovrebbe scorgere un manieristico affetto “di facciata”, senza vero calore umano. Il fatto è che il povero Plinio, colpevole agli occhi di tanti critici di essere un autore di medio livello, è stato parallelamente e ingiustamente ridimensionato a livello umano, dove invece non si dovrebbe dubitare della sua integrità.
Il momento più triste per i due coniugi giunse in occasione di un aborto, di cui Plinio parla in una lettera al suo “prosuocero” Calpurnio Fabato (VIII 10); la giovane moglie, “da vera fanciulla” (“puellariter”), non si era accorta di essere incinta e “aveva trascurato di prendere le precauzioni proprie delle donne gravide, e fece tutto ciò che non doveva fare”. Calpurnia era pure stata in pericolo di vita, ma per fortuna era sopravvissuta: l’anziano nonno dunque dovrà ringraziare gli dèi, perché, se “per ora” gli hanno negato la gioia di avere dei pronipoti, gli hanno almeno mantenuto la nipote, “sì da poterli avere un giorno”. Un augurio, purtroppo per Plinio, destinato a non realizzarsi.
Un’ulteriore prova del sincero affetto di Plinio per Calpurnia si trova in una lettera a Traiano (X 120): qui Plinio, con un certo imbarazzo, confessa di aver violato la regola di non concedere salvacondotti (“diplomata”) a nessuno; infatti, essendo morto Calpurnio Fabato, il nonno di sua moglie, non ha ritenuto di esimersi dal concedere alla moglie (che evidentemente lo aveva seguito in Bitinia) il permesso di recarsi a Como per accorrere presso la propria zia: “il merito di questo pietoso dovere consisteva nella celerità, e sapevo che tu avresti approvato la ragione di un viaggio, che aveva per movente la pietà filiale”. La risposta di Traiano, improntata come sempre a bonaria cordialità, dovette consolare il correttissimo funzionario: “Hai avuto ragione, carissimo Secondo, di aver fiducia nella mia benevolenza, né dovevi esitare a fare ciò che avresti fatto troppo tardi se avessi aspettato di interpellarmi per facilitare il viaggio di tua moglie”.
Gentile professore,
sono una sua “collega”, insegnante di materie letterarie e latino presso il Liceo Statale F.Redi di Arezzo.
Ho trovato interessante la sua sintesi su Plinio, in particolare sul rapporto con la moglie. Non si tratta dell’argomento specifico su cui sto scrivendo (nei pochi momenti liberi, nell’attesa di andare in pensione: sono del ’62, con una didattica, pare, ormai da rottamare), ma è comunque stato utile e piacevole. Io credo che sulla “sincerità” del sentimento di Plinio il dibattito sia viziato dal presupposto che il rapporto moglie-marito nell’antica Roma impedirebbe la “modernità” affettiva che invece sembra emergere, anche in relazione alla reciprocità degli interessi. Va anche detto che gli scrittori, anche quelli più sinceri, sono scrittori e quindi necessariamente topici e letterari. Grazie della sua attenzione.
Cordiali saluti