L’isola di Salamina si trova quasi di fronte ad Atene, nel golfo Saronico.
Nel VII secolo a.C. fu occupata dalla città di Megara, che poteva così ostacolare i traffici marittimi di Atene. La città attica tentò di riconquistare Salamina, ma un lungo conflitto non risolse nulla; infine, stanchi dell’inutile guerra, gli Ateniesi stipularono un armistizio con Megara riconoscendole il possesso dell’isola. Per stroncare ogni opposizione a questo decreto, fu promulgata una legge con cui si vietava, sotto pena di morte, di riproporre la riconquista di Salamina.
Secondo la tradizione, Solone, non tollerando il disonore e il danno economico che derivava ad Atene dalla rinuncia alla riconquista di un’isola posta a a soli 2 km di distanza, si finse pazzo, compose un’elegia “parenetica” (cioè di “esortazione” alla guerra) e la declamò in pubblico nell’Agorà.
Plutarco narra così l’episodio nella “Vita di Solone”: «Quando gli Ateniesi si stancarono di combattere una lunga e difficile guerra contro i Megaresi per l’isola di Salamina e imposero con una legge che nessuno osasse scrivere o parlare per far valere diritti su Salamina, pena la morte, Solone, mal sopportando quell’onta e vedendo che molti giovani non aspettavano che il segnale per ricominciare la guerra ma non avevano il coraggio di farlo per via della legge, simulò la follia e fece in modo che dalla sua casa si spargesse la voce per la città che egli non era più in sé. Compose intanto di nascosto un’elegia e la imparò a memoria, poi di punto in bianco, con un buffo berretto in testa si slanciò fuori di casa e si diresse verso l’agorà. Molta folla si raccolse in fretta attorno a lui che, salito sul podio del banditore, declamò la sua elegia […]. Scoppiato un applauso tra gli amici di Solone al finire del canto, poiché soprattutto Pisistrato incitava calorosamente i cittadini a seguire la sua esortazione, essi revocarono la legge e ricominciarono la guerra eleggendo come capo Solone stesso» (Vita di Solone 8, trad. Faranda Villa).
A noi di questo componimento, che secondo Plutarco contava cento versi, ne restano solo otto, arrivati in tre frammenti in distici elegiaci (il primo tramandato dallo stesso Plutarco, gli altri due da Diogene Laerzio):
1) nel primo testo (fr. 1 West) il poeta si presenta in qualità di messaggero (κῆρυξ) giunto da Salamina per recitare un testo poetico;
2) nel secondo (2 W.) afferma in modo sprezzante che preferirebbe essere un abitante di una sconosciuta isola delle Cicladi, come Folegandro e Sìcino, piuttosto che un Ateniese “Abbandona-salamina” (efficace neologismo sarcastico);
3) nell’ultimo (3 W.), che potrebbe essere la conclusione del componimento, Solone incita gli Ateniesi a combattere per la conquista dell’isola “amatissima”.
Ecco il testo greco dei tre frammenti, seguito dalla mia traduzione:
Fr. 1 W.
Aὐτὸς κῆρυξ ἦλθον ἀφ’ ἱμερτῆς Σαλαμῖνος
κόσμον ἐπέων ᾠδὴν ἀντ’ ἀγορῆς θέμενος.
Fr. 2 W.
Εἴην δὴ τότ’ ἐγὼ Φολεγάνδριος ἤ Σικινήτης
ἀντί γ’ Ἀθηναίου πατρίδ’ ἀμειψάμενος·
αἶψα γὰρ ἄν φάτις ἥδε μετ’ ἀνθρώποισι γένοιτο·
«Ἀττικὸς οὗτος ἀνήρ, τών Σαλαμιναφετέων».
Fr. 3 W.
Ἴομεν ἐς Σαλαμῖνα μαχησόμενοι περὶ νήσου
ἱμερτῆς χαλεπόν τ’ αἶσχος ἀπωσόμενοι.
1 W.
Sono venuto io stesso, come araldo,
dall’amatissima Salamina:
ho composto una bella serie di versi,
non un discorso da fare in piazza.
2 W.
Ah sì allora,
magari fossi nato a Folegandro o Sicino,
magari non fossi Ateniese
e potessi cambiare patria!
Infatti subito questa sarebbe la voce generale:
“Costui è un Ateniese, uno dei Lascia-Salamina”.
3 W.
Andiamo a Salamina,
per combattere per l’isola amatissima,
per liberarci dalla penosa vergogna.
In questa vicenda (che viene narrata anche da altri autori antichi) è difficile distinguere la verità storica dagli elementi leggendari; non è escluso che l’incipit del componimento, con la metaforica assimilazione del poeta ad un araldo, abbia dato origine al racconto.
È anche verosimile che il contesto della performance non fosse la pubblica piazza, ma, come di consueto, il simposio con i compagni dell’“eterìa”, cioè la consorteria di aristocratici uniti da comuni interessi familiari, economici e militari. In ogni caso i versi dimostrano che nell’età arcaica la poesia era “aurale”, cioè (anche ammesso che fosse stata scritta) era destinata all’ascolto.
Come scrive Knox, l’elegia per Salamina si può considerare “poesia da rappresentare”; infatti vi compaiono diversi elementi “teatrali”:
- l’assunzione dell’identità fittizia di araldo (espediente che anticipa la “scena di annuncio” o “rhesis angheliké”, ῥῆσις ἀγγηλική, affidata ai messaggeri negli episodi della tragedia greca);
- il travestimento da “pazzo”, con il cappuccio sul capo;
- l’enfatizzazione dell’io parlante, resa dai pronomi “io stesso” (αὐτός) nel fr. 1 e “io” (ἐγώ) nel fr. 2;
- l’espressione iperbolica con cui il poeta si augura una patria sconosciuta pur di non dirsi ateniese;
- l’uso del discorso diretto per rendere la “voce generale” (φάτις), a cui Solone andrebbe incontro se assecondasse l’inerzia dei suoi concittadini, di essere un “Abbandona-Salamina”.
La cura formale è notevole e traspare anche dall’uso degli aggettivi di origine geografica, in particolar modo “Attico” (Ἀττικός, fr. 2, 4), usato in senso dispregiativo.
Molto significativa è la scelta dell’aggettivo “amatissima” (ἱμερτή) riferito per due volte all’isola di Salamina: sebbene formulare, esso ha un chiaro valore conativo, cioè mira ad esortare gli ascoltatori a un’azione concreta che evidenzi questo “amore”.
Quanto all’espressione “bella serie di versi” (κόσμον ἐπέων), essa indica una composizione di parole “ben ordinata”, quindi in poesia e non in prosa; probabilmente Solone intendeva anche specificare che il suo intervento “poetico” non era da ritenere “proibito”, come sarebbe stato invece un discorso scritto o comunque in prosa.
Questi versi sono particolarmente significativi perché presentano il primo cenno ad Atene e all’Attica da parte di un poeta ateniese: “li permea una fiera coscienza della grandezza di Atene, e l’assunto che essere cittadini di una tale polis comporta onerosi doveri” (Knox).
L’episodio è molto importante per il valore culturale attribuito in esso alla follia; come scrive Giulio Guidorizzi, “per gli Ateniesi era accettabile l’idea che un poeta improvvisasse posseduto dalle Muse, ed era altrettanto accettato che un folle potesse essere animato da uno spirito profetico; cosicché il finto folle Solone poté presentarsi al pubblico ed esibirsi come se la sua elegia fosse in realtà improvvisata sotto la spinta del furore poetico. Attorno alla metà del VI secolo a.C. quindi un pazzo poteva aggirarsi liberamente per le vie, segnalato soltanto da una caratteristica del suo abbigliamento (un berretto) ed era protetto dalle leggi che gli assicuravano l’impunità come a un soggetto non capace di intendere e volere, ma nello stesso tempo poteva essere considerato un individuo in qualche modo speciale e degno di un qualche rispetto” (“Ai confini dell’anima”, Milano 2010, pp. 47-48).
Nell’antica Atene, i pazzi erano esclusi dalla sfera pubblica solo a livello politico-istituzionale; a parte questo, però, non erano sottoposti a particolari restrizioni: “al folle nella polis vengono solo interdetti alcuni comportamenti pericolosi come portare armi, gli vengono posti limiti in alcuni settori della vita civile, ma per il resto è un individuo abbastanza libero. […] La limitazione più gave era di tipo civile e comportava la nullità del testamento” (ibid., p. 44).
L’idea di “fingersi pazzo” comunque era di derivazione epica: anche Odisseo aveva simulato la follia per evitare di essere arruolato per la guerra di Troia (si era messo ad arare un campo dopo aver aggiogato un cavallo e un asino, spargendo sale sui solchi) e ci volle uno astuto come lui (Palamede) per smascherarlo minacciando di fargli uccidere il figlioletto Telemaco ponendolo davanti all’aratro. La vicenda era narrata nei “Canti cipri” attribuiti a Stasino (forse risalente al VII sec. a.C.) e trova riscontro in altri autori.
Fingendosi pazzo e ottenendo dai suoi concittadini la riconquista di Salamina, Solone avviò brillantemente la sua carriera politica: eletto arconte nel 594 a.C. con funzioni di “pacificatore” e “legislatore” (διαλλακτής e νομοθέτης), introdusse l’abolizione della schiavitù per debiti (σεισάχθεια o “scuotimento dei pesi”); promulgò poi una costituzione timocratica, che prevedeva la divisione dei cittadini in quattro classi sociali distinte per reddito.
Dopo aver varato le sue riforme, si ritirò dalla vita politica e viaggiò in Egitto e a Cipro. Fece poi ritorno ad Atene, dove morì all’inizio della tirannide di Pisistrato (intorno al 558 a.C.).