Nel mio grande archivio c’è un settore “storico” dedicato alla collezione di quotidiani, riviste e periodici, a partire dagli anni Venti del secolo scorso. Tutto questo materiale, conservato prima da mio padre e poi da me, mi consente spesso di “rivivere” con immediatezza straordinaria momenti della storia degli ultimi cento anni.
Siccome siamo nel venti-ventiquattro (ah, come sono “à la page” nel chiamare come Moda comanda gli anni di questo ineffabile XXI secolo!), ho ripreso fra le mani una rivista che risale a sessant’anni fa, cioè al 1964. Questa rivista, “Reportages ‘64”, era data in dono agli abbonati alla “Domenica del Corriere” che era nata nel 1899 come supplemento illustrato del “Corriere della Sera”.
Il numero del 1964 contiene articoli firmati da autori importanti come Cesare Merzagora, Indro Montanelli, Alberto Moravia, Giovanni Mosca, Piero Ottone, Antonio Ghirelli, Franco Di Bella, Mario Cervo, Gianni De Felice, Ciro Verratti, ecc.
In particolare, nel rileggere la rivista, si nota come l’argomento centrale che la caratterizzava fosse legato al nascente e clamoroso successo dei Beatles.
Lo si vede già a p. 10, in un articolo di Vittorio Franchini (1927-2014), che fu giornalista, scrittore, critico musicale e inviato speciale del “Corriere della Sera”, direttore della “Domenica del Corriere” e di “Qui Touring”, nonché curatore di molte trasmissioni televisive.
L’articolo, intitolato “Arrivano i Beatles”, appare ben poco favorevole al leggendario quartetto di Liverpool, con alcune valutazioni che il tempo ha impietosamente dimostrato frettolose e ingiuste.
Eccone il contenuto: «I Beatles sono sbarcati sul pianeta Terra. Non sono dei marziani ma vengono ugualmente da molto lontano, vengono dagli “anni ruggenti” della vecchia Chicago di Al Capone, dalle pagine di Scott Fitzgerald, da quell’aggressione in musica che fu il “rhythm and blues”. E ciononostante quello che cantano e suonano passa per buono, sembra nuovo, originale, anche se è malamente rimasticato, anche se è noioso fino all’ossessione. Evidentemente hanno qualcosa che fa scattare la molla interna dei “teen-agers” di tutto il mondo dato che, ormai, non passa giorno senza che le cronache non debbano registrare qualche sconquasso dovuto all’entusiasmo dei giovani per i quattro zazzeruti e vociferanti musicomani. Ma cosa abbiano è difficile a dirsi. Non gli si darebbe due soldi e, invece, valgono miliardi, non li si vorrebbe ascoltare e, invece, inondano con il loro chiasso i “juke-boxes”, li si vorrebbe seminare subito per strada e, invece, li troveremo per molto tempo sul cammino di tutti. Che piacciano o no, sono il fenomeno dell’anno. In fondo è vero che il gusto del “baraccone” rimane intatto nell’uomo di ogni epoca. La nostra, che è detta atomica, si sfoga coi Beatles. Beati loro».
Valutazioni, come si vede, molto discutibili, che fanno ben capire – a mio parere – come ancora il Sessantotto fosse di là da venire: le generazioni giovani erano superficialmente giudicate come capaci solo di fare “qualche sconquasso” lasciandosi allettare da “quattro zazzeruti e vociferanti musicomani”, mentre (a livello tecnico-musicale) il giornalista rivelava l’incapacità di cogliere la novità epocale della musica dei Beatles, frettolosamente valutata come esperimento “malamente rimasticato” e “noioso fino all’ossessione”.
La rivista, però, non doveva pensarla del tutto come Franchini, dato che nelle pagine seguenti, intercalate fra un articolo e l’altro, compaiono le immagini sui concerti dei Beatles in varie città del mondo, caratterizzate da scene di isterismo collettivo e di delirante fanatismo.
A p. 20 una foto a tutta pagina documenta la prima di queste clamorose manifestazioni di entusiasmo; c’è anche una breve didascalia: «Gennaio ’64: i Beatles sono a Parigi. Ventimila “fans”, impazziti, assaltano il teatro Olympia. 35 contusi»; i Beatles si esibirono infatti per 18 giorni al Teatro Olympia di Parigi, tenendo due e talvolta tre concerti al giorno.
Seguono poi altre immagini:
- a p. 29 analoghe immagini dei fans in delirio alla partenza dei Beatles per New York (7 febbraio 1964);
- a p. 38 la copertina dedicata al complesso inglese da Newsweek il 24 febbraio (non senza un commento meravigliato: «Persino una rivista seria e autorevole come “Newsweek” dedica loro una copertina e un ampio servizio”);
- a p. 50 le solite scene di entusiasmo al concerto di Washington l’11 febbraio (con una ragazza che, realizzando il sogno di tutte le sue coetanee di allora, riesce ad abbracciare uno dei “fab four”);
- a p. 70 la foto di una ragazza che a Miami indossa una maglietta che ritrae i Beatles, con la seguente didascalia: «Miami, marzo: la beatlemania ha invaso gli Stati Uniti: in poche settimane vengono vendute 500.000 parrucchette e altrettante magliette e costumi da bagno con le loro immagini»;
- a p. 82 un’immagine di ragazzine in delirio al concerto di Copenaghen il 4 giugno 1964 (quaranta di loro restarono ferite nella calca);
- a p. 100 il rientro in patria dei Beatles, con la polizia che deve chiudere i cancelli dell’aeroporto per cercare di contenere la folla in delirio;
- a p. 114 l’arrivo del complesso inglese a Sydney, con il solito afflusso di migliaia di fan e con l’immancabile bilancio di feriti (21) e contusi (46);
- a p. 134, l’esordio a Londra del film “A hard day’s night”, il primo film dei Beatles, con i fans che si accapigliano per i posti al botteghino;
- a p. 150, analoghe scene di follia collettiva in Nuova Zelanda a Wellington (giugno 1964);
- infine, a p. 162, ragazzine in lacrime al concerto di San Francisco il 19 agosto (erano rimaste fuori dal teatro Cow Palace).
Al termine della rivista si trova un altro articolo di Vittorio Franchini, stavolta intitolato “Ripartono i Beatles”, che conferma la sostanziale incomprensione e svalutazione, da parte del giornalista, del fenomeno in corso: «I Beatles lasciano il pianeta Terra. Carichi di gloria e di denaro, dopo aver inondato il mondo di dischi ed aver colmato con le loro zazzere e con i loro abiti elisabettiani gli schermi TV di tutto l’occidente. Persino Filippo d’Edimburgo, che dice di ammirarli, stringe loro la mano. Ma è un addio per modo di dire, ovviamente, perché la misteriosa miniera del loro fascino è ancora in grado di produrre materiale aurifero e quella famosa molla, che fa scattare le “teen-agers” e le tramuta da timide educande in jene scatenate, funziona sempre. Tuttavia l’arco del loro trionfo sta per chiudersi, la parabola del successo canzonettistico diventa sempre più breve. Altri volti premono le masse dei giovani, altre voci mirano al trono d’oro che i Beatles, troppo a lungo e ingiustamente, hanno tenuto. E loro, i quindicenni d’oggi, coloro che sia pure attraverso le tasche dei padri, mantengono con valuta pregiata i divi della canzone, hanno bisogno subito di un mito nuovo. Non importa, ora, se si chiamerà “Rolling stones” o “Fanatics”. Basta che non sia quello dei Beatles».
Checché ne pensasse Franchini, sbagliando clamorosamente le sue valutazioni, il “trono d’oro” dei Beatles resta indiscusso; non a caso lo scorso anno, il 2 novembre, l’uscita di un inedito dei Fab Four, “Now and then” (canzone scritta e cantata da John Lennon, sviluppata da Paul McCartney, George Harrison e Ringo Starr e finita da Paul e Ringo), ha avuto un successo strepitoso.
Un’ultima considerazione: come si è visto, la rivista “Reportages ‘64” adottava come “fil rouge” il trionfo crescente e sorprendente dei Beatles; tuttavia non vanno dimenticati gli altri interessantissimi articoli presenti in quel numero, nei quali vengono commentati alcuni dei più importanti eventi del 1964: il secondo governo Moro, la morte di Togliatti e di Giorgio Morandi, il conflitto latente fra Cina ed URSS, la malattia del presidente Segni, la realizzazione del traforo del Gran San Bernardo, l’Inter campione del mondo, la scissione del P.S.I., la vittoria di Anquetil al Tour de France, la crisi nel Vietnam, il ritiro di Nikita Kruscev, ecc.