“La musica è finita” è una bellissima canzone del 1967; fu presentata al Festival di Sanremo e cantata da Ornella Vanoni (memorabile) e da Mario Guarnera (dimenticato). Le parole del brano erano di Franco Califano e Nisa (Nicola Salerno), mentre la musica era di Umberto Bindi, con arrangiamento di Gianfranco Intra.
C’è stata una serata fra amici: un po’ di musica, qualcosa da sbocconcellare al buffet, qualche coppia che balla un lento.
A quella serata lei era andata con tante aspettative: ha saputo, o indovinato, che avrebbe incontrato un suo antico amore; e si è illusa che quell’occasione servisse a riaccendere la scintilla, che potessero tornare a parlarsi, che potesse riproporsi qualche momento magico, come un tempo.
Niente di tutto ciò: «Ecco, la musica è finita, / gli amici se ne vanno».
Se ne è andato via anche lui, senza che succedesse nulla di nulla. Davvero, è stata una “inutile serata”: «Che inutile serata, amore mio».
E al suo “amore” lei rivolge una struggente nota di protesta, che è anche la confessione di una delusione accorata e profonda: «Ho aspettato tanto per vederti / ma non è servito a niente. / Niente, nemmeno una parola, / l’accenno di un saluto». Lui è stato gelido, freddo, persino scostante.
Ma lei dissimula il suo stato d’animo, cerca di non mostrare il suo dolore, si tuffa nei convenevoli come ultima ancora di salvezza e sa dire solo “arrivederci”, con un amaro sorriso: «Ti dico arrivederci, amore mio, / nascondendo la malinconia / sotto l’ombra di un sorriso».
Queste le parole, questi i gesti; ma la mente, invece, grida ben altro: «Cosa non darei per stringerti a me! / Cosa non farei perché questo amore / diventi per te più forte che mai».
Ma che ne sa la gente delle parole non dette?
Che ne può sapere, in particolare, quell’uomo tanto amato (forse immeritatamente)?
Niente da fare, «la musica è finita, / gli amici se ne vanno».
E lei resta sola, «più di prima».
L’ultimo inutile appello viene espresso da un grido muto mentre lui si allontana, ancora una volta e forse per sempre: «Un minuto è lungo da morire / se non è vissuto insieme a te. / Non buttiamo via così / la speranza di una vita d’amore».
Sembra di rivedere il finale di “Via col vento”, con Rossella O’Hara che implora Rhett Butler di restare («Se te ne vai che sarà di me? Che farò?») e lui che risponde freddamente: «Francamente me ne infischio»; ma mentre Rhett si allontana, Rossella conferma la sua natura indomabile e la sua voglia di continuare a lottare: «Dopotutto, domani è un altro giorno». Allo stesso modo, la donna della nostra canzone, nel chiudere quella serata “inutile”, continua a sperare, a illudersi, a non arrendersi: “la speranza di una vita d’amore” è sempre dura a morire.
A Sanremo, nel 1967, l’esecuzione era iniziata con un’introduzione orchestrale quasi sinfonica, nella quale un inciso ricordava chiaramente il coro a bocca chiusa della “Madama Butterfly” di Puccini. Entrava poi la voce straordinaria di Ornella Vanoni, prima sussurrata e poi sempre più forte ed emotivamente intensa, fino agli acuti che coincidevano con il massimo livello della speranza; dopo un nuovo intermezzo orchestrale, ritmato secondo la moda degli anni Sessanta, la cantante gridava la sua ultima disperata invocazione, prima di far spegnere il suo canto in una nota finale dolcissima e dolorosa.
Un’interpretazione straordinaria, che si può riascoltare su YouTube (https://www.youtube.com/watch?v=Sy6aw6FjzGg).
Ma non bastò: le giurie di quell’anno, che non avevano capito il brano di Luigi Tenco (che si suicidò dopo l’eliminazione della sua canzone “Ciao, amore, ciao”, cantata in coppia con Dalida), non capirono neanche questo brano troppo raffinato e lontano dal gusto nazionalpopolare, che si classificò soltanto al quarto posto; vinsero invece Claudio Villa e Iva Zanicchi con il tradizionalissimo brano “Non pensare a me”.
Nelle successive edizioni della canzone, sia su 33 giri che su CD, fu eliminata la lunga introduzione orchestrale, ritenuta responsabile del (relativo) insuccesso della canzone; ma (almeno a mio parere) fu un ulteriore errore che impoveriva l’esecuzione e ne eliminava proprio la premessa indispensabile (se “la musica è finita”, questa musica prima si deve pur sentire!).
In ogni caso, il pezzo è diventato un classico della musica italiana ed ha originato numerose cover (tra cui quelle di Mina, Renato Zero, Franco Califano, Antonella Ruggiero e Annalisa).
Un’ultima doverosa precisazione: io, avendo in mente l’esecuzione della Vanoni, ho letto la vicenda “al femminile”; ma Califano e Nisa l’avevano scritta al maschile (“e tu mi lasci solo più di prima”). Mutatis mutandis, non cambia nulla nel significato del brano: da una parte c’è una persona che ama disperatamente e ostinatamente, dall’altra un’altra persona che forse ha amato pure (chissà se non ancora di più) ma ora è freddamente determinata a chiudere col passato.
Quello che non cambia è il messaggio poetico e musicale, bellissimo e struggente in diversi incisi.
Davvero, una di quelle canzoni che non si dimenticano. E se dal prossimo incombente festival venisse fuori almeno una sola canzone così, la manifestazione avrebbe onorato pienamente la sua ragione originaria di esistere.
«Ecco, la musica è finita,
gli amici se ne vanno.
Che inutile serata, amore mio!
Ho aspettato tanto per vederti
ma non è servito a niente.
Niente, nemmeno una parola,
l’accenno di un saluto.
Ti dico arrivederci, amore mio,
nascondendo la malinconia
sotto l’ombra di un sorriso.
Cosa non darei per stringerti a me!
Cosa non farei perché questo amore
diventi per te più forte che mai.
Ecco, la musica è finita,
gli amici se ne vanno
e tu mi lasci sola più di prima.
Un minuto è lungo da morire
se non è vissuto insieme a te.
Non buttiamo via così
la speranza di una vita d’amore.
Un minuto è lungo da morire
se non è vissuto insieme a te.
Non buttiamo via così
la speranza di una vita d’amore».