Achille e Priamo

Il XXIV canto dell’Iliade si intitola “Il riscatto di Ettore” (Ἕκτορος λύτρα); la spedizione notturna di Priamo nel campo acheo costituisce l’avvenimento principale e la scena di conciliazione che ne segue porrà fine definitivamente alla collera di Achille, concludendo così lo spunto narrativo principale del poema.

L’impresa di Priamo, accompagnato dall’araldo Ideo, presenta connotazioni magiche e surreali, dovute anche all’apparizione del dio Hermes in qualità di aiutante divino.

Nel viaggio notturno del re troiano si è voluto scorgere un rito di separazione, una sorta di “discesa agli inferi”, una “catabasi”; Hermes infatti è il dio addetto ad accompagnare non solo i viaggiatori terreni, ma anche le anime dei defunti. È innegabile comunque che “i fatti di questo canto posseggono in certa misura la tempra fantastica e arcana che orna intere parti dell’Odissea: il viaggio a notte fonda, il divino soccorritore in veste di ragazzo, la dimensione dell’oltremondo […], la conversazione dai toni raccolti (come avverrà nella baracca di Eumeo, guardiano di porci) fra Achille e quel vecchio uomo che gli rammenta il padre anziano” (G. S. Kirk, La letteratura greca della Cambridge University, A. Mondadori, Milano 19973 p. 133).

La scena di Priamo e Achille ricorda da vicino un altro episodio iliadico, l’ambasceria notturna del IX libro; in entrambi i casi, infatti:

  • Achille riceve nottetempo una visita inattesa e gli viene offerta una grande quantità di splendidi doni;
  • alla scena segue un banchetto;
  • Achille pronuncia un discorso caratterizzato da profonda disillusione.

Ci sono però anche alcune differenze:

  • Priamo viene personalmente nella tenda del nemico, mentre Agamennone aveva inviato tre ambasciatori;
  • Priamo giunge con i doni, anziché proporne un semplice elenco (come quello fatto da Odisseo, cfr. IX 262 ss.);
  • più intensa è poi la commozione di Achille nel nostro episodio, dato che l’eroe prorompe in lacrime.

Scomparso Hermes, Priamo si appresta alla sua difficile missione ed entra risolutamente nella tenda di Achille.

Va detto che la traduzione “tenda” risulta alquanto impropria: la κλισίη omerica (il cui nome deriva da κλίνω e indica il luogo ove “si giace” in riposo, a mangiare, a dormire e a far l’amore) è di una grandezza imponente, come si deduce dalla sua accurata descrizione: «Poi, quando alla tenda del Pelide arrivarono, / alta, che al sire avevano fatto i Mirmìdoni, / tagliando travi d’abete, e sopra avevano messo / un tetto di frasche, dai prati ammassandole, / e intorno avevano fatto una gran corte al signore, / con pali fitti e chiudeva la porta un’unica sbarra / d’abete, ma tre achei la mettevano / e tre la toglievano, la gran sbarra della sua porta, / tre degli altri, Achille la metteva anche solo»  (vv. 448-456; uso qui la traduzione di Rosa Calzecchi Onesti). La “tenda” dunque sembra in realtà una vera e propria casa d’abitazione; probabilmente il poeta dell’Iliade era più pratico di palazzi che di accampamenti militari, ma in ogni caso il luogo in cui si svolge l’importante scena ne risulta connotato in modo particolare, caricandosi di suggestione.

Questa tenda costituisce uno spazio ben differenziato rispetto agli altri luoghi descritti nel poema: è il luogo dell’isolamento, ove l’eroe si chiude in una dimensione tutta sua, lontano dal frastuono della guerra e dalle miserie umane. Nella tenda i tre ambasciatori trovavano Achille, nel IX libro, intento a suonare la cetra e a cantare “glorie d’eroi”, in compagnia del diletto Patroclo (cfr. IX 185-191); ora la tenda torna a essere un luogo privilegiato perché vi avvenga una scena “segreta”, che non deve essere conosciuta dagli altri Greci.

L’ingresso di Priamo è improvviso e sorprendente; immediatamente il vecchio re bacia ad Achille le mani, che gli avevano ucciso tanti figli (vv. 478-479); Priamo ricorda poi ad Achille suo padre Peleo, coetaneo del re troiano, che vive la sua vecchiaia lontano dal figlio; Peleo però almeno ha la gioia di sentire che il figlio è ancora in vita, mentre questa consolazione è negata a Priamo, che è “del tutto infelice” (πανάποτμος, v. 493), visto che ha perso moltissimi dei suoi figli.

In realtà Priamo esagera un po’, dicendo: «Ma io sono infelice del tutto, che generai forti figli / nell’ampia Troia, e non me ne resta nessuno» (vv. 493-494); infatti gli restavano almeno nove figli maschi (che aveva aspramente rimbrottato proprio all’inizio del canto, definendoli “poltroni” (κατηφόνες, v. 253); è chiaro l’intento ottenere un più efficace impatto emotivo, ma Achille non sembra risentirne, giacché più avanti farà esplicito riferimento ai figli superstiti di Priamo («qui in Troia siedo, a te dando pene e ai tuoi figli»: cfr. v. 542). Comunque sia, “la morte prematura dei figli segna il fallimento della riproduzione, costituisce la rottura di quella catena di debiti e di crediti che insorge al momento della nascita: difendere e poi seppellire i propri genitori, essere difesi e poi sepolti dai propri figli” (E. Avezzù, Il riscatto di Ettore, p. 90).

L’Iliade ricorda solo ventidue dei cinquanta figli di Priamo; questi, in quanto monarca orientale, è presentato come poligamo; da Ecuba, in particolare, aveva generato diciannove figli.

Ritornano poi, nelle parole del re troiano, espressioni usate dal narratore nel I libro in occasione della venuta del sacerdote Crise nel campo acheo:

  • il riferimento ai “doni infiniti” (ἀπερείσι’ἄποινα, v. 502; cfr. I 13);
  • l’invito ad accettarli («accetta il riscatto / abbondante che porto», σὺ δὲ δέξαι ἄποινα / πολλά, vv. 555-556; cfr. I 20, τὰ δ’ἄποινα δέχεσθαι);
  • l’esortazione a rispettare gli dèi (αἰδεῖο θεούς, v. 503; cfr. I 21, ἁζόμενοι Διὸς ἑκηβόλον Ἀπόλλωνα).

Rispetto al I libro, però, la situazione ha un esito differente: ai doni rifiutati (quelli portati invano dal sacerdote Crise ad Agamennone) si contrappone qui l’accettazione dei doni di Priamo da parte di Achille; analogamente, alla contesa che lì sorgeva fra due re (Achille ed Agamennone) si oppone qui la conciliazione fra due re (Achille e Priamo).

Fra Achille e Priamo si instaura una profonda συμπάθεια in nome del dolore che li accomuna. Secondo T. Reucher (Die situative Weltsicht Homers, Darmstadt 1983, pp. 446-447), la riconciliazione fra Achille e Priamo rientrerebbe nel quadro di un codice aristocratico, che scavalcherebbe l’organizzazione politica; ma il Di Benedetto afferma invece che “Priamo e Achille si sentono accomunati non in quanto aristocratici (in opposizione a Tersite per la parte greca, e non si sa a chi per la parte troiana), ma in quanto portatori di un intenso soffrire” (Nel laboratorio di Omero, Einaudi, Torino 1994, p. 328).

Particolarmente significativo è che Achille pianga ancor prima di parlare, testimoniando il suo turbamento al più alto livello; si ha qui il modulo narrativo del “saziarsi di pianto”, caratterizzato dall’uso del verbo τέρπεσθαι (v. 513 τετάρπετο).

Ben presto però Achille si riscuote, si alza dal seggio e fa rialzare il vecchio rivolgendogli espressioni di vivo compatimento: «Ah misero, quanti mali hai patito nel cuore! / E come hai potuto alle navi dei Danai venire solo, / sotto gli occhi d’un uomo che molti e gagliardi / figliuoli t’ha ucciso? Tu hai cuore di ferro. / Ma via, ora siedi sul seggio e i dolori / lasciamoli dentro nell’animo, per quanto afflitti: / nessun guadagno si trova nel gelido pianto» (vv. 518-524). Pianti e lamenti dunque non servono a nulla: “da qui in poi le parole di Achille assumono il tono e la struttura del discorso consolatorio, quale sarà codificato dalla retorica posteriore; si può anzi dire che rappresentano per noi il più antico esempio di tale genere di oratoria” (A. Gostoli, Omero-Iliade, Rizzoli, Milano 1996, pp. 1250-1251); questo tipo di discorso sarà chiamato dai Greci παραμυθία o παρηγορία, mentre i Romani lo definiranno consolatio.

Achille pronuncia peraltro espressioni di profondo pessimismo, contrapponendo alla felicità degli dèi l’infelicità umana: «Gli dèi filarono questo per i mortali infelici: / vivere nell’amarezza; essi invece son senza pene» (vv. 525-526).

Segue infatti la celebre immagine dei due orci, da cui Zeus trae i suoi doni, buoni o cattivi; ma in realtà quelli “buoni” sono sempre mescolati ai “cattivi”: il bene “non mescolato” spetta solo agli dèi, mentre agli uomini non manca mai una parte di dolore nella loro esistenza.

Gli orci, in greco pìthoi (πίθοι), erano (come hanno rivelato gli scavi negli antichi palazzi di Creta e di Micene) enormi recipienti interrati nei magazzini, usati per conservare viveri. L’allegoria dei vasi del bene e del male, di origine popolare, sarà poi ripresa da Esiodo con la storia del vaso di Pandora (cfr. Opere e giorni, vv. 59-104).

Le lacrime versate da Achille e Priamo sono un’affermazione desolata della precarietà umana; ne risulta fortemente inficiata la stessa ideologia eroica, giacché a questo punto “il caso, non il merito, determina l’assegnazione dei doni all’uomo” (M. I. Finley, Il mondo di Odisseo, trad.it., Laterza, Bari 1978, p. 156); inoltre è ancora assente l’idea di uno Zeus che sia garante della giustizia.

Se ne deduce anche che “nell’Iliade l’eroismo non porta felicità: suo premio, unico e sufficiente, è la fama. Eppure, malgrado questo, i prìncipi di Omero cavalcano fieramente il loro mondo; temono gli dei soltanto come temono i loro sovrani terreni, né si lasciano intimorire dall’avvenire, anche quando sanno, come Achille, che incombe loro una prossima fine” (E. Dodds, I Greci e l’irrazionale, trad.it., La Nuova Italia, rist. Firenze 1978, p. 35).

Achille rievoca in questa fase la figura di suo padre: «Così a Peleo doni magnifici fecero i numi / fin dalla nascita; splendeva su tutti i mortali / per beata ricchezza; regnava sopra i Mirmidoni, / e benché fosse mortale gli fecero sposa una dea. / ma col bene, anche un male gli diede il dio, ché non ebbe/ nel suo palazzo stirpe di figli nati a regnare, / un figlio solo ha generato, che morrà presto» (vv. 534-540). In questi versi la storia di Peleo si contrappone a quella di Priamo: il primo è ricco e potente e diventa sposo di una dea, ma genera un figlio destinato ad una fine precoce; il secondo, non meno potente e padre di moltissimi figli, subisce la sconfitta e la perdita della prole. Si nota qui in nuce la concezione per la quale chi nasce sotto il favore degli dèi deve temere un contraccolpo per questa eccessiva fortuna; il concetto sarà precisato in seguito come φθόνος τῶν θεῶν, “invidia degli dèi” (cfr. la presenza ricorrente di questo tema in Erodoto).

L’ultima fase dell’incontro tra Priamo e Achille presenta una curiosa alternanza di sentimenti nell’animo del Pelìde. Egli, ad un’inopportuna sollecitazione del vecchio re, che chiede l’immediata restituzione del cadavere del figlio, reagisce con un ennesimo scatto di collera: “Non m’irritare ora, o vecchio” (v. 560). Il risentimento dell’eroe può trovare certamente una spiegazione logica: “Achille sente nell’insistenza e nell’impazienza di Priamo un rimprovero implicito al suo comportamento; dato che ha già deciso dentro di sé di cedere alla supplica, ne rimane ferito nel suo amor proprio; di qui lo scatto d’ira” (A. Gostoli, op. cit., p. 1253).

Ma in effetti anche qui affiora la tendenza del narratore a riutilizzare moduli narrativi già impiegati nel I libro, nella scena di Agamennone e Crise. Infatti l’espressione usata da Achille (μηκέτι νῦν μ’ ἐρεθίζε) riecheggia l’ordine rivolto da Agamennone a Crise nel I libro (cfr. v. 32: μή μ’ ἐρέθιζε), mentre il v. 571 è addirittura identico a I 33: «Disse così, e il vecchio tremò e obbedì alla parola». La situazione però non è identica: infatti nel I libro il sacerdote era cacciato via ed esortato a non farsi più vedere, mentre qui Achille mira pur sempre a trattenere Priamo nella sua tenda.

In ogni caso resta l’impressione che il carattere del Pelìde risulti improntato ad una costante imprevedibilità, per cui il suo equilibrio psicologico, a stento riconquistato, appare sempre precario, suscettibile di nuove ricadute nella dismisura e nell’ira. Lo dimostra anche il timore manifestato dall’eroe poco più avanti (vv. 582 ss.), allorché invita le schiave a lavare il corpo di Ettore “in altro luogo”, temendo che Priamo si adiri alla vista del cadavere del figlio e provochi così in Achille una nuova esplosione d’ira; egli teme di poter uccidere il vecchio re, mostrandosi poco convinto delle proprie capacità di autocontrollo. Plutarco tuttavia lodò il passo come un esempio di repressione dell’ira (cfr. Moralia 31 a-c).

Dopo che il cadavere di Ettore è stato lavato, unto con olio e rivestito dalle schiave, lo stesso Achille lo pone sul feretro; allora geme e invoca il nome del suo amico perduto: «O Patroclo, non indignarti con me, se saprai, / pur essendo nell’Ade, che ho reso Ettore luminoso / al padre: non indegno riscatto m’ha offerto, / e anche di questo io ti farò la parte che devo!» (vv. 592-595). È apparsa strana l’invocazione apotropaica di Achille al defunto Patroclo, giacché l’opinione omerica sui morti prevede una loro esistenza nell’aldilà, ma comporta anche in loro una totale cessazione di sentimenti e passioni, per cui non si comprende questo riferimento a un’eventuale “ira” dell’amico scomparso. Si può però scorgere qui un altro indizio della “recenziorità” del XXIV libro, nel quale si sarebbero dunque infiltrate concezioni di epoca successiva.

Un’opinione critica recente tende a scorgere in questo episodio una prova della “reintegrazione” di Achille nella comunità eroica e del suo passaggio dall’adolescenza alla fase adulta. Ma, alla luce di quanto si è detto, non sembra il caso di prospettare un cammino ordinato e regolare di Achille dall’“immaturità” alla “maturità”, dall’irrazionalità alla ragionevolezza; troppi elementi si oppongono ad uno schema così lineare, per cui sembra più opportuno accettare la contraddittorietà della figura di Achille, pienamente coerente col tipo di composizione “orale” utilizzata nei poemi omerici.

La restaurazione di una condizione di “normalità” viene conclamata con il ripristino di consuetudini quotidiane come il cibo e il sonno; è Achille ad invitare Priamo a prender cibo, mentre il vecchio re chiederà un letto per potersi riposare («vinti dal sonno dolce, godiamo a dormire; / mai sotto le palpebre mi si chiusero gli occhi / da quando il figlio mio perdette per tua mano la vita», vv. 637-638).

La vita riprende nei suoi ritmi biologici, nelle sue esigenze elementari. Ed in questo banchetto “normale” viene cancellato il ricordo del furore antropofago che aveva assalito Achille al momento dello scontro con Ettore (cfr. XXII 346-347).

Di Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico "Andrea D'Oria" e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all'Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E' sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.

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