Eloì, Eloì, lemà sabactàni?

Oggi, domenica delle Palme e di Passione, il Vangelo di Marco descrive così la morte di Gesù sulla croce: «E giunta l’ora sesta, si fece buio su tutta la terra, fino all’ora nona. E all’ora nona, Gesù gridò con voce forte: “Eloì, Eloì, lemà sabactàni?”, che tradotto significa: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. E alcuni dei presenti all’udire ciò dicevano: “Ecco, chiama Elia!”. E uno corse a inzuppare una spugna di aceto, e postala su una canna gli dava da bere, dicendo: “Aspettate, vediamo se viene Elia a levarlo”. Allora Gesù mandando un forte grido spirò» (trad. dal greco di Piero Rossano).

Marco cita in aramaico le ultime parole di Gesù, che costituiscono il primo versetto del salmo XXI (XXII per la tradizione ebraica), il cosiddetto “Salmo messianico” di David.

Assolutamente parallela è la narrazione di Matteo (45-50); tuttavia Marco scrive “Eloì” (forma aramaica derivata dal più arcaico “Elohim” = il Signore), mentre Matteo usa “Eli”, che si presta maggiormente al crudele gioco di parole con cui i presenti deridono Gesù (“Ecco, chiama Elia!”).

Come chiarì papa Benedetto XVI in occasione di una sua Udienza generale in Aula Paolo VI (14 settembre 2011), questo salmo è «una preghiera accorata e toccante, di una densità umana e una ricchezza teologica che ne fanno uno tra i Salmi più pregati e studiati di tutto il Salterio. Si tratta di una lunga composizione poetica; […] presenta la figura di un innocente perseguitato e circondato da avversari che ne vogliono la morte; ed egli ricorre a Dio in un lamento doloroso che, nella certezza della fede, si apre misteriosamente alla lode. Nella sua preghiera, la realtà angosciante del presente e la memoria consolante del passato si alternano, in una sofferta presa di coscienza della propria situazione disperata che però non vuole rinunciare alla speranza».

Nel salmo di David l’orante, in un profondo stato d’animo di disperazione, sente che Dio è lontano, non risponde, sembra averlo abbandonato: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? / Lontane dalla mia salvezza le parole del mio grido. / Mio Dio, grido di giorno e non rispondi; / di notte, e non c’è tregua per me» (vv. 2-3)».

Il silenzio di Dio nei momenti estremi, nella situazione di massimo bisogno, è lacerante per il fedele, che si sente solo. Eppure, continua Benedetto XVI, «l’orante del nostro Salmo per ben tre volte, nel suo grido, chiama il Signore “mio” Dio, in un estremo atto di fiducia e di fede. Nonostante ogni apparenza, il Salmista non può credere che il legame con il Signore si sia interrotto totalmente; e mentre chiede il perché di un presunto abbandono incomprensibile, afferma che il “suo” Dio non lo può abbandonare».

Ecco dunque che al grido iniziale di supplica segue il ricordo del passato: «Dio mio, invoco di giorno e non rispondi, / grido di notte e non trovo riposo. / Eppure tu abiti la santa dimora, / tu, lode di Israele. / In te hanno sperato i nostri padri, / hanno sperato e tu li hai liberati; / a te gridarono e furono salvati, / sperando in te non rimasero delusi».

Dunque, il Salmo XXI documenta un passaggio da una situazione di disperazione, creata dalla sensazione di abbandono da parte di Dio, a un’ostinata fiducia nell’intervento salvifico di Dio.

La situazione descritta nel salmo coincide per molti aspetti con quella che si verifica durante la passione di Gesù: «Un branco di cani mi circonda, / mi assedia una banda di malvagi; / hanno forato le mie mani e i miei piedi, / posso contare tutte le mie ossa. / Essi mi guardano, mi osservano: / si dividono le mie vesti, / sul mio vestito gettano la sorte. / Ma tu, Signore, non stare lontano, / mia forza, accorri in mio aiuto».

Gesù sulla croce “cita” espressamente questo salmo, gridandolo “a gran voce” (φωνῇ μεγάλῃ); tale grido, continua Benedetto XVI, «esprime tutta la desolazione del Messia, Figlio di Dio, che sta affrontando il dramma della morte, una realtà totalmente contrapposta al Signore della vita. Abbandonato da quasi tutti i suoi, tradito e rinnegato da discepoli, attorniato da chi lo insulta, Gesù è sotto il peso schiacciante di una missione che deve passare per l’umiliazione e l’annichilimento. Perciò grida al Padre, e la sua sofferenza assume le parole dolenti del Salmo».

A questo punto il pontefice precisa “l’intenzione” di Gesù nel gridare quelle parole: «poiché nell’uso ebraico citare l’inizio di un Salmo implicava un riferimento all’intero poema, la preghiera straziante di Gesù, pur mantenendo la sua carica di indicibile sofferenza, si apre alla certezza della gloria. “Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?”, dirà il Risorto ai discepoli di Emmaus (Lc 24,26). Nella sua passione, in obbedienza al Padre, il Signore Gesù attraversa l’abbandono e la morte per giungere alla vita e donarla a tutti i credenti».

Insomma, il grido disperato, la sensazione di abbandono, l’urlo quasi “munchiano”, corrisponderebbero al desiderio di riaffermare la fede in Dio, un Dio che – anche quando sembra “abbandonare” – in realtà resta vicino al fedele. La morte, sopraggiunta subito dopo, avrebbe impedito a Gesù la citazione della seconda parte del salmo, quella in cui viene proclamata la speranza nella salvezza data da Dio.

Crocifissione, affresco di Giotto, 1303-1305, Cappella degli Scrovegni, Padova

Va detto a questo punto che il Vangelo di Luca, che per tanti aspetti è sinottico a quelli di Marco e di Matteo, si differenzia nettamente nella citazione delle ultime parole di Gesù sulla Croce, attribuendogli una frase ben diversa: «“Padre, nelle Tue mani rimetto il mio spirito”. E detto questo spirò». (Lc. 23-46). Luca dunque esplicita il concetto dell’affidamento a Dio: non cita il Salmo XXI, ma allude al suo significato sostanziale, che “trascende” l’angoscia del momento nella speranza di salvezza.

Quanto al Vangelo di Giovanni, esso risulta qui del tutto differente: per lui le ultime parole di Gesù sono «Tutto è compiuto»; dopo di che, «chinato il capo rese lo spirito» [Gv. 19-30]; qui dunque non si allude all’angoscia, né si prefigura la speranza del soccorso divino, ma si insiste sul “compimento” della donazione di sé, da parte di Gesù, per la Redenzione dell’umanità, in una chiave teologica più evidente.

In base a quanto affermato, sembra evidente che Marco e Matteo, con il rimando al salmo di David, intendessero sottolineare che Gesù era davvero il Messia preannunciato nell’Antico Testamento (vista la coincidenza dei particolari della passione); a questo mirava la citazione diretta delle parole in ebraico antico o aramaico, seguita peraltro dalla versione in greco: ελωι ελωι λεμα σαβαχθανι, ὅ ἐστιν μεθερμηνευόμενον Ὁ θεός μου ὁ θεός μου, εἰς τί ἐγκατέλιπές με;

Secondo Benedetto XVI il riferimento al Salmo XXI, citato alla lettera da Marco e Matteo e nel suo significato complessivo da Luca, ha lo scopo di sottolineare l’intervento salvifico di Dio: «Lasciamoci dunque invadere dalla luce del mistero pasquale anche nell’apparente assenza di Dio, anche nel silenzio di Dio, e, come i discepoli di Emmaus, impariamo a discernere la vera realtà al di là delle apparenze, riconoscendo il cammino dell’esaltazione proprio nell’umiliazione, e il pieno manifestarsi della vita nella morte, nella croce».

Scena da “La passione di Cristo” di Mel Gibson (2004)

Eppure, al di là delle interpretazioni filologiche ed esegetiche, in quel grido disperato (“Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”) si può forse vedere qualcos’altro.

Gesù, secondo la dottrina cristiana, “si è fatto vero uomo” venendo in questo mondo per salvare l’umanità dal peccato.

Ebbene, un “vero uomo” ha, sempre, i suoi dubbi. E soprattutto nei momenti estremi è “umanissimo” dubitare di Dio: se quest’uomo, “vero uomo”, sta soffrendo pene atroci, se è ormai (come diceva il Salmo) “verme, non uomo, / infamia degli uomini, rifiuto del mio popolo”, se attorno a lui ci sono solo ironici commentatori della sua agonia, non è “umano” che si ponga, hic et nunc, domande angoscianti?  

Dov’è finito quel Dio che aveva predicato, suo Padre celeste?

Come mai non è qui, ora, al suo fianco?

Perché permette tutto questo? («Da me non stare lontano, / poiché l’angoscia è vicina / e nessuno mi aiuta»).

E dire che Gesù se l’era immaginato già, tutto questo, nell’orto degli ulivi: «Padre, se vuoi, allontana da me questo calice! Tuttavia non sia fatta la mia, ma la tua volontà» (Luca, 22, 39-46).

Forse Gesù non è mai stato così uomo, così vero uomo, quanto in questo momento di smarrimento, di sfiducia, di disperazione.

Così sono gli uomini, quando non sentono più Dio accanto a sé, quando vedono trionfare il male, la violenza, l’ingiustizia («Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? / Tu sei lontano dalla mia salvezza / […] Dio mio, invoco di giorno e non rispondi, / grido di notte e non trovo riposo»).

La citazione biblica dell’antico salmo di David, nell’estremo momento, consiste solo in quel “grido” disperato e umanissimo; la morte, sopraggiunta subito dopo, ha impedito a Gesù di “gridare” i successivi versi: «Eppure tu abiti la santa dimora, / tu, lode di Israele. / In te hanno sperato i nostri padri, / hanno sperato e tu li hai liberati; / a te gridarono e furono salvati, / sperando in te non rimasero delusi».

Di Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico "Andrea D'Oria" e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all'Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E' sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.

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