Continuiamo la rassegna di vocaboli del dialetto siciliano che vengono compresi e utilizzati anche nell’italiano regionale dell’isola e quindi nella conversazione quotidiana.
Eccone altri cinque.
1) “Malacunnuttu” – Il termine è decisamente dialettale, ma viene utilizzato comunemente per indicare “persona di cattiva condotta” (Traina); si tratta, in particolare, di persone che – per l’appunto – si sono “mal condotte” e quindi vivono di espedienti illegali, sono fannulloni, prepotenti e arroganti, rifuggono da ogni atteggiamento onesto e legalitario.
Dare la propria figlia in moglie a un “malacunnuttu” era il timore di ogni padre premuroso; d’altro canto poteva avvenire che il bieco figuro si rivelasse tale solo in seguito, magari dopo aver messo le mani sulla dote della fanciulla…
Il termine fu usato da Gesualdo Bufalino: «remoti sottosuoli umani, popolati di pregiudicati, biscazzieri, bevitori, malacunnutta» (“Due fotografi a Comiso, cent’anni fa” (1978), in “Opere”, Bompiani, 2007, vol. II, p. 1100).
2) “Pizzuto” – Il vocabolo, come spiega Mortillaro, ha un senso letterale (“appuntato, aguzzo, pungente”) ma viene soprattutto usato in senso figurato: “pizzuto”, infatti, è chi “ha petulanza”, è “rispondiero, presuntuoso” (Traina). La persona “pizzuta”, insomma, non è mai remissiva: risponde alle provocazioni (talora esagerando), dice pane al pane e vino al vino, difende strenuamente le sue ragioni.
Particolarmente, una donna “pizzuta” è colei che (in base ai criteri patriarcali dominanti in Sicilia) “parla assai”, si mostra sfacciata e petulante: “Miiiii, che pizzuta è mia nuora!!” (dice la suocera indignata delle sue ribellioni).
Etimologicamente, il termine potrebbe derivare da “pizzo” (foggia di barba, rasata sulle guance e terminante a punta sul mento), proprio a indicare il carattere “maschile” e provocatore del “pizzuto”; ma c’è chi lo riporta all’abitudine di “sedersi in pizzo” (cioè in punta, sopra spigoli appuntiti), che provocherebbe reazioni aspre nei confronti dell’universo creato.
3) “Sbruognapopolo” – Quando compro la verdura, ad es. qualche mazzo di “giri” (così qui chiamiamo le bietole) o spinaci o verdura mista di campagna (cicoria, “cavuliceddi”, “vurrànii”, ecc.), la porto a casa trionfante, credendo di aver provveduto ampiamente alle nostre esigenze; ma la verdura è “sbruognapopolo”, cioè appena la cuoci si riduce il suo volume e la sua quantità; e forse anziché due euro dovevo spenderne tre…
L’aggettivo “sbruognapopolo” (alla lettera “svergogna-popolo”) indica appunto questa sorta di umiliante “presa in giro” di cui si può essere vittima; il verbo dialettale è “sbrigugnari”, cioè “fare altrui vituperevolmente vergogna” (come spiega nel suo italiano aulico il Traina).
Parallelamente, “sbruognapopolo” (come la verdura di cui sopra), è qualunque cosa che si rivela meno eclatante di quanto fosse sembrato in un primo tempo: tali sono, purtroppo, numerose promesse elettorali…
4) “Scunucchiato” – Indica qualcosa che è in cattivo stato, sconnesso e pericolante. Il corrispondente verbo “scunucchiari” appartiene al lessico della tessitura: “trarre d’in su la conocchia il pennecchio, filando” (Traina); per metafora, allude allo “sconnettere” e sconquassare gli oggetti. In particolare, sedersi su una sedia “scunucchiata” è quanto mai sconsigliabile: “Non ti sedere su questa sedia, è scunucchiata!” (e in questi casi ci si chiede sempre perché questa sedia micidiale non sia stata già eliminata dal suo proprietario…).
5) “Virrinedda” – È diminutivo di “virrina”, che propriamente è (come spiega minuziosamente Mortillaro) “strumento di ferro da bucare fatto a vite, appuntata dall’uno dei capi, e dall’altro con un manico per lo più di legno”; in italiano è il “succhiello” o “punteruolo ad elica”, piccolo utensile utilizzato in falegnameria, che permette di praticare dei piccoli fori nel legno senza ricorrere all’ausilio di un trapano.
Una famosa canzone popolare siciliana allude proprio a questo pratico ed efficace attrezzo: “Accattari vurrìa na virrinedda / di notti la to porta a spirtusari; / e vìdiri, gioiuzza mia, quantu si bedda / quannu ti spogghi prima di curcari” (“Vorrei comprare un succhiello / per perforare di notte la tua porta / e per vedere, gioia mia, quanto sei bella / quando ti spogli prima di coricarti”).
Metaforicamente, si definisce “virrinedda” colui o colei che, insistendo cocciutamente, riesce sempre a districarsi in ogni situazione: le sue azioni sono abili, astute ed ingegnose; non gli manca mai uno stratagemma efficace per risolvere un problema; parallelamente, però, “virrinedda” è anche chi diventa un po’ intrigante e ficcanaso, facendosi anche troppo gli affari non suoi: «“Mi pari ‘na virrinedda”, si dice di persona troppo ossessiva e indiscreta» (Alajmo).
Roberto Alajmo “azzarda” (come dichiara egli stesso) una sua interessante spiegazione etimologica del termine: «Allora: “virrina”, senza nemmeno troppo variare, proviene da “Verrine”, il nome che presero le sette orazioni pubblicate da Cicerone in accusa di Gaio Licinio Verre, governatore romano di Sicilia dal 73 al 71 avanti Cristo. Poco più di un paio d’anni, ma bastanti a depredare molto oltre ogni decenza. In realtà a Cicerone bastò pronunciare le prime due orazioni per indurre Verre a prendere la via dell’esilio: le altre cinque Verrine sono un di più che divulgò per portare acqua al mulino della sua parte politica, se ancora ce ne fosse stato bisogno. Da allora in Sicilia si dice “virrina” per accusare qualcuno di eccessiva insistenza, con una connotazione negativa che capovolge i ruoli di accusato e accusatore. Evoluzione di significato che lascia riflettere anche oltre il significato etimologico della parola» (www.robertoalajmo.it).
Non so quanto l’ipotesi di Alajmo sia corretta, ma sicuramente Cicerone gliene sarebbe molto grato (un po’ meno Verre, che peraltro di emuli e discendenti, qui dalle nostre parti, ha sempre continuato ad averne anche troppi…).