La scena n. 90 del bellissimo film “Baarìa” di Peppuccio Tornatore (2009) risulta al tempo stesso vivace, esilarante e realistica, testimoniando un andazzo assai comune.
A Bagheria, pochi anni dopo la fine della guerra, come si legge nella sceneggiatura, “l’ufficio annona è invaso da venditori ambulanti per l’annuale taratura delle bilance. Rosa, la vicina di Sarina, ha raggiunto uno sportello e si rivolge al funzionario”.
Il colloquio fra Rosa e l’impiegato è molto divertente; lo propongo integralmente dalla sceneggiatura di Tornatore, che – nella versione originale del film – era in stretto dialetto “baariuòto”; per facilitare la comprensione, inserisco nelle parentesi quadre le opportune traduzioni italiane.
ROSA – Fici ‘a domanda p’a licienza ra putìa. Prùonta è? [“Ho fatto domanda per la licenza del negozio. È pronta?”]
FUNZIONARIO ANNONA – Sè, prùonta… Sei mesi ci vogliono, signora!
ROSA – Miii, ‘un si pò fari anticchiedda prima! [“Miii, non si può fare un pochino prima?”]
FUNZIONARIO ANNONA (nervoso) – Signora, se la legge dice sei mesi, sei mesi sono!
(La donna gli s’avvicina, abbassa la voce, allusiva…)
ROSA – Veramente mi manna ‘u zu Carru Minà… [“mi manda lo zio Carlo Minà”]
(Appena sente quel nome l’uomo si calma di colpo. Abbassa la voce anche lui, perplesso.)
FUNZIONARIO ANNONA – Ma… ‘U grùossu, o ‘u nicu? [“il grande o il piccolo?”]
ROSA (scorata) – ‘U nicu… [“Il piccolo”]
FUNZIONARIO ANNONA – Puru buonu è… Aspittassi ‘na menz’urata. [“Va bene lo stesso… Aspetti una mezz’ora”]
La scena è un piccolo capolavoro per la rappresentazione psicologica, per le scelte lessicali e per la denuncia implicita che ne deriva.
La signora Rosa si reca all’ufficio annona, per vedere a che punto è la pratica sulla licenza per il suo negozio.
Alla sua fiduciosa richiesta (“Pruonta è?”) si contrappone la netta replica del funzionario: “Sè, pruonta….”, in cui quel “sè” (cioè “sì”) è pronunciato con palese ironia, volendo significare il suo esatto contrario; la verità viene invece proclamata subito dopo: “Sei mesi ci vogliono, signora!”.
Rosa, costernata, chiede se ci sia modo di accelerare la pratica, ma il funzionario, “nervoso” (con le persone “non conosciute” gli impiegati qui sono sempre “nervosi”), dà la risposta “ufficiale” che millanta un ossequio alla legge: “Signora, se la legge dice sei mesi, sei mesi sono!”.
Questa, in un Paese normale, sarebbe la conclusione della conversazione. Ma in Sicilia esistono altre risorse, ben più efficaci del rispetto della legge.
Rosa, dunque, si gioca la carta che le resta: dice di “essere mandata” dallo “zio” Carlo Minà, evidentemente un notabile locale molto “’ntisu” (cioè influente e potente).
A questo punto il funzionario cambia radicalmente; gli resta però ancora un dubbio: di Carlo Minà ne esistono due, evidentemente omonimi, “’u grùossu” e “’u nicu” (presumibilmente padre e figlio); quale dei due sta “segnalando” Rosa alla sua attenzione? Chiede quindi ragguagli in merito.
La donna, “scorata”, biascica con rammarico la risposta che teme insufficiente: “’u nicu”.
Ma anche il notabile “nicu” va benissimo all’impiegato: “Puru buonu è”.
Sicché la pratica, che doveva attendere sei mesi, viene accelerata drasticamente e miracolosamente, finendo per richiedere soltanto un’attesa di “’na menz’urata”, cioè di soli trenta minuti.
Di scene del genere, negli anni che ho vissuto a Bagheria e poi qui a Palermo, ne ho viste innumerevoli.
I cittadini “normali” qui sono bistrattati, conculcati, ignorati e derisi.
Viceversa, i cittadini che “conoscono” qualcuno si vedono spalancare le porte che fino a un attimo prima erano, o “per legge” o per insostenibili pastoie burocratiche, ermeticamente chiuse.
Il bello è che nessuno trova intollerabile questo andazzo: anzi la prima cosa da fare, quando si deve affrontare un intoppo burocratico, è trovare qualcuno “conosciuto”, per ottenere il miracolo in tempi ragionevoli.
Il concetto è estendibile anche ad ambiti non burocratici: le “segnalazioni” sono indispensabili per ottenere un posto di lavoro, per affrontare un concorso, per ottenere una visita medica, persino (semplicemente) per ottenere un minimo di “attenzione”.
Qui la domanda più ricorrente, quando si deve affrontare un problema, è: “A cu canusciemu?” (“Chi conosciamo?”).
Su questo argomento, rinvio a un divertentissimo sketch del bravissimo attore Ernesto Maria Ponte sui “modi palermitani” (che a quelli “baariuoti” somigliano non poco…): https://www.youtube.com/watch?v=f4-B_6c2IvE).
E qui chiudiamo, non senza replicare la conclusione cui siamo arrivati ieri: “si può fare ben poco”.