I capponi, come è noto, sono in origine galli come gli altri, ma poi all’età di circa due mesi vengono castrati, diventando così più morbidi e saporiti. Lo stesso termine “cappone” deriva (attraverso il latino “capo, -onis”) dal verbo greco “kóptō” (κόπτω), che significa appunto “tagliare”, con riferimento alla suddetta castrazione dell’animale.
Scopo precipuo della vita del cappone è ingrassare e trasformarsi un giorno in un succulento e prelibato pasto per qualche occasione festosa. Questa occasione oggi è prevalentemente il Natale o il Capodanno, ma nel ‘600 poteva anche essere un matrimonio.
Nel novembre del 1628, in un paesino lombardo vicino Lecco, quattro capponi stavano per vedere il loro ultimo sole; in casa di Agnese Mondella, infatti, si preparava il matrimonio della figlia Lucia con Renzo Tramaglino e la domenica successiva si sarebbe fatto festa assaporando le saporite bestiole, immolate per l’occasione.
Chissà se i capponi avevano vissuto quella giornata con apprensione; o forse no, perché gli animali – beati loro – non hanno ansie, non si fanno molte domande, non pensano al domani. Dunque essi razzolavano nella stia, come tutti gli altri giorni, beccando avidamente il mangime e scorrazzando allegramente nel loro stretto spazio vitale. Fatto sta che il crudele don Rodrigo, senza neanche immaginarlo, quel giorno salvò loro la vita, almeno per il momento.
Nel capitolo III dei “Promessi Sposi” Renzo, Lucia e Agnese discutono animatamente sull’imprevista situazione che li ha costretti a rinviare il matrimonio, previsto per quel giorno, 8 novembre 1628.
L’improvviso rifiuto di don Abbondio di celebrare il rito e la scoperta da parte di Renzo dell’intimidazione fatta al curato dai bravi di don Rodrigo hanno messo i promessi sposi e la madre di Lucia in uno stato di comprensibile sbigottimento e disperazione.
Renzo è furioso e dà in escandescenze: «“Ah birbone! ah dannato! ah assassino!” gridava Renzo, correndo innanzi e indietro per la stanza, e stringendo di tanto in tanto il manico del suo coltello».
A questo punto Agnese cerca di incoraggiare i due giovani: «Sentite, figliuoli; date retta a me. […] Io son venuta al mondo prima di voi; e il mondo lo conosco un poco. Non bisogna poi spaventarsi tanto: il diavolo non è brutto quanto si dipinge». Consiglia dunque a Renzo di andare a Lecco a consultare il dottor Azzecca-garbugli («Ma non lo chiamate così, per amor del cielo: è un soprannome»), «quel dottore alto, asciutto, pelato, col naso rosso, e una voglia di lampone sulla guancia».
Per garantire al giovane una migliore accoglienza da parte dell’insigne avvocato, Agnese consiglia di portargli un omaggio: «Pigliate quei quattro capponi, poveretti! a cui dovevo tirare il collo, per il banchetto di domenica, e portateglieli; perché non bisogna mai andar con le mani vuote da que’ signori. Raccontategli tutto l’accaduto; e vedrete che vi dirà, su due piedi, di quelle cose che a noi non verrebbero in testa, a pensarci un anno».
I capponi di Renzo sono immediatamente presentati con un epiteto (“poveretti!”) che ne rimarca il crudele destino; le povere bestie sono scampate a una fine prematura (grazie all’annullamento della cerimonia nuziale e del previsto pranzo domenicale); ma rischiano ora di affrontarla ugualmente nella cucina dell’insigne giurista.
Agnese, “superba” d’aver dato il suo utile parere, «levò, a una a una, le povere bestie dalla stia, riunì le loro otto gambe, come se facesse un mazzetto di fiori, le avvolse e le strinse con uno spago, e le consegnò in mano a Renzo; il quale, date e ricevute parole di speranza, uscì dalla parte dell’orto, per non esser veduto da’ ragazzi, che gli correrebber dietro, gridando: lo sposo! lo sposo!».
Ridotti a “mazzetto di fiori” stretto con uno spago, i poveri capponi vengono sbatacchiati per tutto il percorso che divide il paese di Renzo da Lecco; e l’autore descrive puntualmente questo travagliato itinerario: «Lascio poi pensare al lettore, come dovessero stare in viaggio quelle povere bestie, così legate e tenute per le zampe, a capo all’in giù, nella mano d’un uomo il quale, agitato da tante passioni, accompagnava col gesto i pensieri che gli passavan a tumulto per la mente. Ora stendeva il braccio per collera, ora l’alzava per disperazione, ora lo dibatteva in aria, come per minaccia, e, in tutti i modi, dava loro di fiere scosse, e faceva balzare quelle quattro teste spenzolate; le quali intanto s’ingegnavano a beccarsi l’una con l’altra, come accade troppo sovente tra compagni di sventura».
In questo resoconto, colpisce la graduale “personificazione” dei capponi, assimilati a “compagni di sventura” che, come spesso succede, non hanno fra loro la minima solidarietà ma finiscono per “beccarsi” a vicenda, aggravando il loro danno.
Non è escluso che qui Manzoni alludesse ai contrasti affiorati tra i liberali milanesi in occasione dei moti del 1821; ma c’è qui una più ampia riflessione sulla natura umana, ritenuta egoista ed incapace di vera solidarietà nella sventura.
Non mancano, ovviamente, possibili attualizzazioni di questo brano manzoniano: si pensi, ad esempio, alle lacerazioni storiche fra i partiti e le correnti della Sinistra italiana, che in molti casi, “beccandosi” scriteriatamente fra loro, hanno fatto il gioco dei loro avversari politici; ma non mancano possibili analogie con altri analoghi contrasti, come la recente scissione del Movimento degli Zainetti o come le ricorrenti lacerazioni del centro-destra o come le zuffe tra vax e no-vax (tutti ugualmente vittime designate del redivivo covid) o tra le eterogenee componenti del governo-minestrone di Draghi; e via capponando.
Comunque sia, la situazione è passata addirittura in proverbio: l’espressione “fare come i capponi di Renzo” deplora i vani litigi fra le vittime di una sventura, che dovrebbero invece prendersela con chi l’ha provocata.
All’arrivo a Lecco, Renzo presenta alla serva del dottor Azzecca-garbugli i capponi, che vengono subito abbrancati avidamente: «Entrato in cucina, domandò alla serva, se si poteva parlare al signor dottore. Adocchiò essa le bestie, e, come avvezza a somiglianti doni, mise loro le mani addosso, quantunque Renzo andasse tirando indietro, perché voleva che il dottore vedesse e sapesse ch’egli portava qualche cosa. Capitò appunto mentre la donna diceva: “date qui, e andate innanzi”. Renzo fece un grande inchino: il dottore l’accolse umanamente, con un “venite, figliuolo”, e lo fece entrar con sé nello studio».
Come è noto, l’incontro si basa dapprima su un equivoco: il leguleio ritiene inizialmente che Renzo sia un bravo, un delinquente che intende impedire un matrimonio; e si meraviglia che egli si compiaccia nel vedere le “gride” che minacciano terribili castighi per chi commetta questo atto illecito. Quando però la situazione si chiarisce e Renzo si rivela vittima e non colpevole («Oh! signor dottore, come l’ha intesa? l’è proprio tutta al rovescio. Io non ho minacciato nessuno; io non fo di queste cose, io. […]. La bricconeria l’hanno fatta a me; e vengo da lei per sapere come ho da fare per ottener giustizia»), il povero montanaro viene sbrigativamente messo alla porta e gli vengono immediatamente restituiti i capponi: «Restituite subito a quest’uomo quello che ha portato: io non voglio niente, non voglio niente».
La serva ubbidisce immediatamente: «Prese le quattro povere bestie, e le diede a Renzo, con un’occhiata di compassione sprezzante, che pareva volesse dire: bisogna che tu l’abbia fatta bella. Renzo voleva far cerimonie; ma il dottore fu inespugnabile; e il giovine, più attonito e più stizzito che mai, dovette riprendersi le vittime rifiutate, e tornar al paese, a raccontar alle donne il bel costrutto della sua spedizione». Appare qui amaramente vera la constatazione per cui, nella società corrotta dell’epoca (solo di quell’epoca?), a “farla bella”, cioè a combinare guai, non sono don Rodrigo, i suoi bravi o il corrotto Azzecca-garbugli, bensì il povero contadino che osa chiedere giustizia.
Manzoni, in modo caritatevole verso i capponi, non ci racconta il loro viaggio di ritorno, presumibilmente non meno sballottato del precedente, limitandosi a registrare l’ultimo momento di quella loro “trista” giornata, con il mesto ritorno a casa: «In questa, arrivò Renzo, ed entrando con un volto dispettoso insieme e mortificato, gettò i capponi sur una tavola; e fu questa l’ultima trista vicenda delle povere bestie, per quel giorno».
Immaginiamoceli restituiti provvisoriamente al loro pollaio, stanchi per la giornataccia, magari ancora intenti a beccarsi a vicenda, salvo poi a sprofondare nel salutare oblìo del sonno. L’indomani, anche per i capponi, sarebbe stato un altro giorno, sicuramente più sereno perché di feste in vista, per il momento, non si vedeva nemmeno l’ombra.
P.S.: Il pittore bergamasco Giovanni Battista Galizzi (1882-1963) ha ritratto in un suo acquerello (intitolato appunto “I capponi di Renzo”) le nostre quattro povere bestie, legate insieme per le zampe, che si agitano in ogni direzione aprendo le ali e il becco. L’opera fa parte di una serie di dodici dipinti del Galizzi, che eseguì su carta e su tela parecchie raffigurazioni dei “Promessi Sposi”; esposta a Lecco nel 1973, si trova oggi nella Galleria Comunale d’Arte dei Musei Civici di Lecco.
Caro Prof. , grazie a mio figlio e ai suoi interventi, ho ripreso la lettura di questo bel romanzo che, con i Suoi commenti – che mi auguro copiosi- , mi riporta indietro nel tempo, a quel biennio impegnativo e assai formativo. A presto.