Oggi andrà in scena a Siracusa il secondo dramma scelto dall’Istituto Nazionale del Dramma Antico per la 59a stagione di spettacoli classici; è un dramma di Euripide, che per l’occasione è stato intitolato “Fedra” (per la regia di Paul Curran e con Alessandra Salamida nella parte di Fedra), ma il cui titolo originale è Ippolito coronato (Ἱππόλυτος στεφανοφόρος).
In realtà il primo titolo scelto da Euripide era stato Ippolito velato (Ἱππόλυτος καλυπτόμενος): ma questa sua prima versione aveva scandalizzato il pubblico, poiché in essa Fedra confessava apertamente e direttamente il suo amore al figliastro, sicché egli si velava il capo per l’orrore; ci si può fare un’idea di questo primo Ippolito dalle “riscritture” di Ovidio (Heroides IV) e Seneca (nella sua Phaedra). Il remake, rappresentato nel 428 a.C., propose un’immagine di Fedra tormentata dal rimorso e dalla vergogna (αἰδώς). Il rifacimento fruttò all’autore una delle poche vittorie della sua carriera.
Ecco il contenuto del dramma.
La scena si svolge a Trezene, nell’Argolide. Nel prologo la dea Afrodite lamenta di essere trascurata da Ippolito, figlio di Teseo e dell’Amazzone Antiope; il giovane è dedito al culto di Artemide, per cui rifiuta l’amore e si dedica solo alla caccia. Afrodite decide di punirlo infondendo in Fedra, matrigna del giovane, un’incontenibile passione amorosa per lui. Ippolito giunge in scena reduce dalla caccia, con i servi e una muta di cani; glorifica Artemide e, malgrado i consigli di un servo, rifiuta di rendere omaggio ad Afrodite.
Il coro delle donne di Trezene compatisce Fedra, che è preda di un male sconosciuto e rifiuta il cibo. Fedra, entrata in scena, passa da una fase di delirio ad una riconquistata lucidità; sollecitata da un’intrigante nutrice, finisce per confessare il suo insano ed impossibile amore per Ippolito.
La nutrice, pensando di venire in aiuto alla sua padrona, riferisce tutto ad Ippolito. Il giovane però, scandalizzato dalla rivelazione, risponde con ingiurie furibonde e maledice Fedra.
La donna, disperata, si suicida impiccandosi; lascia, però, uno scritto in cui accusa Ippolito di averla violentata.
Tornato a Trezene, Teseo legge l’estremo messaggio di Fedra e, furioso, inveisce contro il figlio senza ascoltare le sue giustificazioni (Ippolito non può però svelare tutta la verità, perché ha giurato alla nutrice di non parlarne con nessuno); il re invoca su Ippolito la punizione di Poseidone.
Un messaggero narra che, mentre Ippolito si apprestava a lasciare la città, un gigantesco toro mandato dal dio marino aveva spaventato i cavalli del suo carro, che, ribaltatosi, aveva travolto il giovane.
Nell’esodo Ippolito, condotto morente sulla scena, spira fra le braccia di Teseo, al quale Artemide, comparsa ex machina, ha svelato la terribile verità.
Il motivo narrativo alla base dell’Ippolito è quello della “moglie di Putifarre”, presente nella tradizione ebraica e trattato da Euripide anche in tragedie perdute (come la Stenebea e il Fenice).
Nella Genesi (39,6-20) si narra che la moglie di Putifarre, ricco signore d’Egitto, si innamorò del giovane schiavo Giuseppe, acquistato dal marito e posto a capo dell’amministrazione della casa per le sue capacità. Il giovane però respinse le avances della donna che, offesa, si vendicò accusandolo di aver tentato di violentarla. In seguito alla falsa accusa Giuseppe fu rinchiuso nelle prigioni del Faraone. Ma Dio gli fece trovare grazia presso il direttore del carcere, tanto che costui gli affidò le sue mansioni.
Elementi ricorrenti in questo tipo di racconti erano: le profferte amorose della donna; il rifiuto da parte del giovane; la falsa accusa della donna respinta. La conclusione era invece variabile, perché il giovane poteva veder riconosciuta la propria innocenza oppure, come accade a Ippolito, andare incontro alla morte; quanto alla donna, in genere subiva una “giusta” punizione.
Fin dal prologo Fedra viene presentata da Afrodite come vittima di una malattia (νόσος, v. 40) provocata “dall’assillo del desiderio” (v. 39, trad. Susanetti); il male non dà tregua all’infelice, prostrandola a livello fisico e psichico.
Nel I episodio, in un lungo monologo (rhesis) che segue la confessione “estorta” dalla nutrice, la protagonista analizza la propria passione: afferma anzitutto di essersi rifugiata nel silenzio per celare il suo male, facendo poi appello alla saggezza (σωφρονεῖν) nel tentativo di vincere la “follia” (ἄνοια, vv. 398-399); ma questo tentativo era fallito per la potenza dell’eros; condanna poi le donne impudiche (cfr. vv. 407-421). L’infelice donna vive l’insanabile contrasto tra le convenzioni sociali, che la inducono al “pudore” (αἰδώς) e alla “buona fama” (εὔκλεια), e la forza devastante del “desiderio amoroso” (ἵμερος); anticipa così la Medea di Apollonio Rodio, che sarà altrettanto divisa fra queste due polarità.
Da tutto ciò emerge una valutazione impietosa ed inevitabile per l’etica greca del tempo: Fedra è, anche se si sforza di non esserlo, una “donnaccia” (come la giudicherà Aristofane nelle Rane). La sua dimensione interiore coincide con la folle “de-menza” (ἄνοια), con l’onnubilamento della “mente” (νοῦς) accecata dalla passione; l’infelice oscilla “tra fantasie di appagamento e impietosa riprovazione delle cadute e degli errori delle mogli altrui (di quelle da cui lei vorrebbe distinguersi)” (Susanetti).
La mentalità anomala della protagonista emerge anche nella sua riflessione che scardina la concezione socratica secondo cui la virtù coinciderebbe con la conoscenza del bene: “Noi sappiamo bene che cos’è il bene, lo vediamo, ma poi non ci sforziamo di farlo” (vv. 380-381). Su questa linea sarà anche il poeta latino Ovidio, che alla sua Medea farà dire: video meliora proboque, deteriora sequor (“vedo le cose migliori e le approvo, ma vado dietro alle peggiori”, Metamorfosi VII, 20-21):
Quando Fedra, disperata per la reazione di Ippolito, si toglie la vita, con un estremo messaggio lo accusa di avere abusato di lei. Perché la donna accusa il giovane di una colpa che non ha commesso? Le ipotesi possibili sono diverse: per vendicarsi della sua ripulsa; per salvare la propria reputazione post mortem; per presentarsi come vittima anziché colpevole; o, forse, perché intende “rendere reale” quello che ha desiderato ardentemente, cioè di avere un rapporto sessuale con Ippolito; trascinare Ippolito nella propria rovina è per Fedra il solo modo di possederlo.
Il ruolo fondamentale di Fedra fa sì che, paradossalmente, la figura di Ippolito nel dramma passi in secondo piano (da qui la giustificazione della scelta, negli spettacoli di quest’anno, del titolo a lei dedicato). Tuttavia il giovane figlio dell’Amazzone è presentato con caratteristiche molto nette: dedito alla caccia, alieno dall’amore e dalle amicizie, membro di una famiglia reale ma figlio “bastardo”, lontano da ogni ambizione politica, Ippolito è un giovane “anomalo” per il mondo greco. Virtuoso ed ascetico fino al fanatismo, egli si attarda nello stadio “efebico” adolescenziale: la sua mancata integrazione nella comunità cittadina e la sua estraneità all’idea stessa del matrimonio costituiscono un’intollerabile anomalia sociale, politica e biologica.
All’isolamento sociale di Ippolito corrisponde la sua misoginia, che viene esternata in una delle più violente requisitorie contro le donne di tutta la letteratura greca (vv. 616-668): il giovane sogna un mondo autarchico maschile, dal quale il femminino è categoricamente escluso. D’altro canto, però, il giovane è leale fino al sacrificio della vita: infatti, pur di non tradire la parola data (ha giurato alla nutrice di non rivelare a nessuno quello che lei gli ha detto), evita di replicare alle accuse del padre, provocandone la terribile reazione che gli costerà la vita.
La morte di Ippolito segna il suo passaggio ad un destino di gloria: la “nobiltà” del giovane è stata conquistata “sul campo”, grazie alla lealtà mostrata nell’osservare il giuramento.
Molto importante nel dramma è il ruolo della nutrice di Fedra: è lei ad indurre Fedra a parlare, rivelando poi quanto ha appreso ad Ippolito.
Il colloquio fra le due donne evidenzia la profonda differenza fra di loro: Fedra difende i valori femminili tradizionali, mentre la nutrice è mossa da un’etica pratica, aliena da scrupoli.
L’iniziativa della serva risulta però disastrosa e le frutta la poco onorevole taccia di “sporca ruffiana” (κακῶν προμνήστρια, v. 589); l’autodifesa della τροφός riconferma il suo carattere egocentrico e proclama la spietata legge del “risultato a tutti i costi”: “Ho cercato un rimedio per la tua malattia, ma ho fallito. Se mi fosse andata bene, ora tutti direbbero ‘che brava!’… Perché uno è bravo solo se ha successo!” (vv. 699-701).
La condanna senza appello dell’intrigante serva viene pronunciata alla fine dalla dea Artemide ex machina: “[Fedra]… fu vittima delle mene della nutrice” (τροφοῦ… μηχαναῖς, vv. 1304-1305).
La figura di Teseo è particolarmente tormentata: l’eroe si scontra con un figlio “incomprensibile” di cui pronuncia una categorica condanna, salvo poi a pentirsene quando nell’esodo apprende la verità; al termine del dramma viene però assolto da Artemide perché all’oscuro dei fatti.
Prive di ogni senso di moderazione e chiuse nella difesa ad oltranza delle proprie prerogative sono le due divinità che compaiono in simmetrica antitesi all’inizio e alla fine del dramma, cioè Afrodite ed Artemide.
Già in precedenza la nutrice aveva citato, per incoraggiare Fedra alla trasgressione, il comportamento “disinvolto” degli dèi in amore (vv. 451-461); ma la più disperata protesta contro l’ingiustizia divina proviene da Ippolito agonizzante: “Zeus, Zeus, vedi tutto questo? Andavo fiero di me stesso, ero devoto agli dei. Nessuno era più onesto di me… e ora eccomi: a un passo dalla morte e la mia vita distrutta! Mi sono tanto sforzato di avere rispetto, di comportarmi come si deve con gli altri uomini: fatica sprecata!” (vv. 1363-1369).
P.S.: Ho ricavato queste note dalla mia storia letteraria “Grecità” (scritta con Michela Venuto ed edita da Palumbo nel 2012).