L’imbalsamazione nell’antico Egitto nel racconto di Erodoto

Il “terminus post quem” per il viaggio di Erodoto in Egitto è il 460 a.C., data probabile della battaglia di Papremis tra i Persiani e i ribelli egiziani di Inaro, ricordata nel III libro (cap. 12); si ipotizza dunque che lo storico di Alicarnasso sia stato nella terra dei faraoni tra il 450 e il 430.

Dalle testimonianze dell’autore risulta che egli sia stato a Menfi, a Tebe, a Pelusio, a Eliopoli e in molte altre località, spingendosi sino a Siene (attuale Assuan) e assistendo all’inondazione annua del Nilo.

Più volte Erodoto ripete di avere visto con i suoi occhi le cose di cui parla, “andando a vedere di persona” (αὐτόπτης ἐλθών, II 29, 1); non si deve però credere che egli abbia davvero visitato tutti i luoghi citati nel logos egizio, giacché in molti casi alla visione diretta (ὄψις) si saranno sostituite le informazioni orali (ἀκοή); viceversa, è possibile che Erodoto abbia anche visitato dei luoghi non ricordati esplicitamente nella narrazione.

Il metodo e le fonti che hanno originato la narrazione sono esplicitati nel capitolo di passaggio tra la prima e la seconda parte del logos egizio: “Fin qui ho esposto ciò che ho visto (ὄψις… ἐμή), le mie riflessioni (γνώμη) e le mie ricerche (ἱστορίη). A partire da qui, esporrò i racconti degli Egiziani (Αἰγυπτίους… λόγους), come li ho ascoltati (κατὰ τὰ ἤκουον); inoltre aggiungerò anche qualcosa di quello che ho visto (τῆς ἐμῆς ὄψιος)” (II 99, 1; uso qui la traduzione di Augusto Fraschetti).

Per quanto concerne le informazioni orali, la fonte più importante per Erodoto fu costituita dai sacerdoti egizi, di Tebe, Menfi ed Eliopoli; essi gli fornirono informazioni sulla religione, sulla storia, sulla geografia, sulla cultura e sull’antropologia. Alcuni critici (ad es. l’Asheri) hanno ipotizzato che gli informatori di Erodoto fossero in realtà dei “sagrestani di basso rango” (D. Asheri, Le Storie – Vol. I, Fondazione Lorenzo Valla, A. Mondadori, Milano 19913, p. XXIX), poco colti e poco informati; ma secondo altri “è tutt’altro che improbabile che Erodoto abbia avuto accesso a sacerdoti di alto rango” (A. B. Lloyd, Erodoto – Le Storie – Libro II, Fondazione Lorenzo Valla, A. Mondadori, Milano 19963, p. XX). Non mancarono poi altre fonti orali: gli abitanti delle varie città, gli stranieri residenti in Egitto (Libici, Colchi e Greci), i motivi folklorici collezionati qua e là per l’Egitto, ecc.

Non conoscendo la lingua egizia (tranne i pochi vocaboli che aveva imparato e di cui lascia testimonianza nel libro), l’autore doveva ricorrere ad interpreti, talvolta non molto attendibili; Erodoto “da buon turista…vede tutto ciò che gli mostrano le sue guide; ma non si accontenta: pone domande, interroga, intervista; a volte ci garantisce compiaciuto di avere percorso chilometri solo per verificare l’esattezza di una informazione” (F. Barberis, Erodoto – Le Storie-libri I-II (Lidi, Persiani, Egizi), Garzanti, Milano 1989, p. XII).

È sicuro infine che su Erodoto operò l’influsso di Ecateo di Mileto, autore di una Descrizione della terra, divisa in due parti, dedicate rispettivamente all’Asia e all’Europa.

L’inizio del lungo excursus sull’Egitto è segnalato in modo esplicito dall’autore: “Vengo invece all’Egitto, ampliando il racconto (μηκυνέων τὸν λόγον), poiché possiede moltissime meraviglie (πλεῖστα θωμάσια ἔχει) e offre opere (ἔργα) superiori a ogni descrizione, a confronto di ogni altro paese: appunto perciò se ne parlerà più a lungo” (II 35, 1).

Erodoto qui “mostra di essere pienamente cosciente del carattere eccessivamente digressivo di ciò che racconta, rispetto a quello che sarebbe un più naturale ordine di esposizione” (L. Canfora – A. Corcella, La letteratura politica e la storiografia, in AA.VV., Lo spazio letterario della Grecia antica, vol.I , pp.433-471, Salerno Editrice, Roma 1992, p. 443). L’autore sa di interrompere l’asse narrativo principale, ma poco gli importa, di fronte al “dovere” di riferire tutto ciò che sa su un argomento poco noto e così attraente. La ricerca delle “meraviglie” era del resto conclamata sin dal Proemio dell’opera, che presentava come nucleo del racconto “le imprese grandi e straordinarie” (ἔργα μεγάλα τε καὶ θωμαστά); una dimensione “didattica” è sottesa a tutta la narrazione erodotea.

Non si può negare la conoscenza profonda della civiltà egiziana che Erodoto ha conseguito con il suo viaggio; i suoi interessi abbracciano quasi tutti i campi del sapere; l’autore si interessa di tutto, il suo spirito scientifico e la sua autonomia di pensiero sono dati di fatto. Tuttavia emergono anche innegabili difetti: manca un vero ordine espositivo, si salta spesso da un argomento all’altro senza ordine, senza rigore logico e soprattutto senza esaustività, schematizzando tutto; spesso, inoltre, Erodoto cade in una sorta di atteggiamento reticente, soprattutto allorché dovrebbe riferire su consuetudini religiose, restando vittima di scrupoli un po’ bigotti.

La critica esercitata dall’autore si limita spesso all’inserimento di alcuni prudenti “dicono” (λέγουσι) laddove le notizie riferite appaiono più inverosimili. Si può anche obiettare che “Erodoto, mentre s’interessa tanto delle singole persone, dei fatterelli privati, dei popoli e dei loro costumi, è poi ben lontano dall’essere un pittore altrettanto diligente dei fenomeni economici e sociali, un attento osservatore delle trasformazioni politiche… Un ritratto morale e intellettuale dei popoli il lettore se lo deve ricavare da sé, perché invano aspetterà di vederlo scaturire da apprezzamenti diretti dell’autore” (D. Alasia, Erodoto – Istorie, La Nuova Italia, Firenze 19669, p. 50).

Nonostante queste lacune, l’Erodoto etnografo risulta piacevole per i lettori di ogni epoca (come lo era sicuramente per gli ascoltatori del suo tempo) per la vivacità della narrazione, per la ricchezza e la varietà delle informazioni, per il senso di stupore ammirato che emerge da tutte le pagine. Ed il relativismo erodoteo e il suo rispetto per i costumi (νόμοι) di tutti i popoli, lungi da essere – come protestava Plutarco – manifestazioni di un animo antiellenico e “filobarbaro”, costituiscono invece una lezione etica altissima per tutti gli intolleranti e gli xenofobi di ogni epoca e di ogni paese.

Esaminiamo qui, in particolare, i capitoli in cui Erodoto parla dell’imbalsamazione dei defunti (II 86-89), documentando un uso diffusissimo in Egitto e tanto rispettato da far definire “luogo sacro” o “edificio divino” il luogo ove veniva esercitata tale pratica.

Secondo la religione egizia, l’anima del morto (chiamata Ka) poteva proseguire la vita nell’aldilà se il suo corpo veniva preservato dalla corruzione.

Il mestiere di imbalsamatore era ereditario (cfr. Diodoro I 91, 3); c’era un capo (detto “capo dei misteri”) con una serie di inservienti alle sue dipendenze; il loro rapporto con il morto era modellato sul ruolo di Anubi, ritenuto inventore dell’imbalsamazione, dato che l’aveva applicata per la prima volta sul cadavere di Osiride, con cui venivano identificati tutti i morti.

Nel cap. 86 Erodoto dice che gli imbalsamatori propongono ai clienti tre diverse forme di imbalsamazione, con diverse modalità e diversi prezzi. Va detto che le fonti egizie non fanno mai menzione di questa tripartizione; tuttavia Diodoro Siculo (I 91) preciserà i prezzi dei tre tipi di imbalsamazione: un talento per quella “di prima classe”, venti mine per la seconda, molto meno per la terza.

La prima, più accurata e costosa, è simile a quella operata da Anubi su Osiride; consiste nell’estrazione chirurgica del cervello del defunto, nonché nella laparotomia con l’estrazione degli intestini; il ventre viene poi riempito di mirra pura tritata, di cannella e altri aromi; poi viene ricucito. Il cadavere è quindi posto sotto sale per settanta giorni, ricoperto di nitro. Dopo questo periodo, il corpo viene avvolto con bende tagliate da un lenzuolo di bisso, spalmate di gomma (usata come colla). I parenti infine ritirano la mummia, fanno fare una bara di legno a forma di uomo e vi rinchiudono il cadavere.

Il cap. 86 presenta un implicito riferimento al dio Osiride (“colui che in siffatta circostanza non è lecito nominare”); spesso Erodoto rifugge dal nominare le divinità nel timore di offenderle. Nel mondo egizio, Osiride è raffigurato come una mummia: il mito racconta infatti che egli fu ucciso e fatto a pezzi dal fratello Seth, ma sua sorella-moglie Iside ritrovò i pezzi, li rimise insieme e con l’aiuto di Anubi li imbalsamò, li avvolse in bende di lino e li ricoprì di amuleti per rendere incorruttibile il corpo del marito. Questo mito spiega perché Iside sia considerata una divinità benevola e guaritrice e perché invece Anubi sia diventato il dio dell’imbalsamazione; il mito inoltre giustifica la diffusione della pratica della mummificazione: il defunto imbalsamato si identificava con Osiride e poteva aspirare alla vita eterna. Al cospetto di Osiride nell’oltretomba erano pesate le anime condotte dal dio Anubi davanti al tribunale.

Il secondo tipo di imbalsamazione (cap. 87), quella “media”, meno dispendiosa, si basa su dei clisteri di olio di cedro, con cui il ventre del cadavere viene riempito senza l’estrazione degli intestini; il corpo viene lasciato a mummificare per i giorni stabiliti e infine si estrae dal ventre l’olio di cedro, che tira via con sé i visceri e le interiora dissolte; il nitro invece dissolve le carni, lasciando solo la pelle e le ossa del cadavere.

Erodoto quindi ricorda (cap. 88) il terzo tipo di imbalsamazione, riservato ai i più poveri, che consiste soltanto nel pulire i visceri del morto con un purgante e nel tenere il corpo sotto sale per settanta giorni.

Infine nel cap. 89 l’autore riferisce che, se muoiono le mogli di personaggi eminenti, oppure donne molto belle e di gran conto, esse non sono subito imbalsamate, ma vengono consegnate ai mummificatori solo dopo alcuni giorni, per evitare episodi di necrofilia: “Le donne degli uomini eminenti, quando muoiono, non le danno subito a mummificare, e neppure le donne che siano molto belle e di maggior conto; esse invece sono consegnate ai mummificatori il terzo o il quarto giorno dalla morte. Fanno così per questo motivo: affinché i mummificatori non si congiungano con le donne. Dicono infatti che uno fu preso mentre si congiungeva con un cadavere di donna ancora fresco, e che a denunciarlo fu il suo compagno di lavoro”.

Il riferimento morboso ai casi di necrofilia su corpi femminili è visto con sospetto dal Lloyd: “ritardi nell’effettuare la mummificazione erano frequenti…, ma non c’è documentazione che essi si verificassero più spesso nel caso di donne. La causa può farsi risalire per lo più al fatto che gli imbalsamatori erano oberati di lavoro. La connessione con abusi sessuali, come quelli descritti da Erodoto, può essere soltanto una diceria dei Greci” (cfr. Le Storie – Libro II, cit., pp. 310-311).

Il rituale dell’imbalsamazione, oltre che da Erodoto, viene descritto anche in due papiri egizi (papiro di Boulaq e papiro n. 5158), che risalgono al I secolo d. C., ma sono copia di un documento del Nuovo Regno. In questi papiri viene narrata minuziosamente l’ultima fase dell’imbalsamazione, con le azioni materiali e le preghiere da recitare. La descrizione erodotea dell’imbalsamazione è peraltro “la più ricca di dettagli pervenuta in una lingua antica” (A. B. Lloyd, in Erodoto – Le Storie – Libro II, cit., p. 308); essa influì su quella di Diodoro Siculo (I 91).

I tre tipi di imbalsamazione, graduati secondo le possibilità economiche dei clienti, sono minuziosamente descritti con una sorta di compiacimento macabro che testimonia sia la sete di sapere dell’autore (che non vuole precludersi nessuna conoscenza scientifica, in particolare nel campo dell’anatomia) sia l’intento di avvincere gli ascoltatori della performance con un brano horror che potesse suscitare scalpore o forse disagio.

Nella descrizione delle tre metodologie di mummificazione si nota qualche inesattezza (comprensibile in un profano) sulle tecniche chirurgiche e sui tempi di mummificazione, ma Erodoto presenta nel complesso dati attendibili. La minuziosa precisazione della descrizione della dissezione si basa sull’uso di termini tecnici della chirurgia e della medicina.

Il tono è apparentemente oggettivo e distaccato, ma per un effetto di “accumulo” nasconde un certo pathos emotivo.

Di Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico "Andrea D'Oria" e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all'Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E' sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.

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