Restare a casa a fare i compiti è spesso ritenuto dai giovani una grande scocciatura: quanto sarebbe più bello andare a fare una bella passeggiata all’aria aperta, specialmente quando si va verso l’estate! E tuttavia, paradossalmente, proprio la scelta di essere “secchione” può a volte salvare la pelle: così accadde a Plinio il Giovane, nipote (e alunno) del famoso scienziato Plinio il Vecchio, che era suo zio materno, in occasione della terribile eruzione del Vesuvio nel 79 d.C.
La bella trasmissione televisiva “Pompei – Le nuove scoperte”, curata da Alberto Angela e andata in onda su Rai Uno il 27 maggio 2024, mi ha fatto tornare in mente la lettera in cui Plinio racconta questa sua esperienza all’amico Tacito.
Plinio Cecilio Secondo era nato a Como nel 61/62 d.C. da ricca famiglia di rango equestre; aveva perso suo padre da bambino; fu allora allevato dallo zio materno, il famoso scienziato Gaio Plinio Secondo (che per colpa del nipote passò alla storia come “Plinio il Vecchio”).
Dopo i primi studi nella città natale, Plinio il Giovane si trasferì a Roma, dove studiò eloquenza con Quintiliano e con il retore greco Nicete Sacerdote; studiò anche filosofia (senza grandi risultati) con lo stoico Musonio.
A diciassette anni, nel 79, Plinio si trovava a Miseno, non lontano da Napoli, allorché, in seguito alla devastante eruzione del Vesuvio che distrusse Ercolano e Pompei, morì anche suo zio, che era accorso sui luoghi del disastro in qualità di ammiraglio della flotta e si era avventurato sotto l’eruzione per prestare aiuto e per studiare il fenomeno.
La tragedia viene narrata da Plinio su esplicita richiesta dello storico Tacito (“mi chiedi di narrarti la fine di mio zio, per poterla tramandare ai posteri con maggiore esattezza”, VI 16, 1, trad. Rusca).
L’autore colloca la catastrofe “il nono giorno prima delle calende di settembre”, cioè il 24 agosto, mentre gli scavi archeologici inducono a datarla a fine ottobre.
Quel giorno (qualunque esso fosse precisamente) “verso l’ora settima” (cioè più o meno alle 13) Plinio il Vecchio fu avvertito dalla sorella dell’apparizione in cielo di “una nube insolita per vastità e per aspetto” (VI 16, 4); “da persona erudita qual era” (VI 16, 7), ritenne che quel fenomeno straordinario “dovesse essere osservato meglio e più da vicino” e ordinò che gli si preparasse un battello liburnico, cioè una veloce nave bireme.
A questo punto lo zio propone al nipote di accompagnarlo: “mi permette, se lo voglio, di andar con lui”; ma la risposta del ragazzo è negativa: “gli rispondo che preferisco rimanere a studiare, anzi per avventura lui stesso mi aveva assegnato un compito” (“respondi studere me malle, et forte ipse, quod scriberem, dederat”).
La lettera descrive poi (sulla base, evidentemente, delle testimonianze dei superstiti) le fasi dell’ultima giornata dello zio, fino alla sua morte per asfissia.
Alla fine Plinio finge di voler narrare ciò che avevano intanto fatto lui e sua madre (“Frattanto a Miseno io e la mamma…”, VI 16, 21), ma poi si interrompe ritenendo che queste notizie siano poco rilevanti e poco utili per Tacito. Lo storico però (che evidentemente conosceva bene l’amico e il suo insopprimibile narcisismo) in una nuova lettera gli chiese di completare il suo racconto.
Evidentemente compiaciuto dalla nuova richiesta di Tacito, Plinio racconta quella sua indimenticabile giornata: “Partito lo zio, consacrai tutto il mio tempo allo studio (appunto per ciò ero rimasto); poi il bagno, la cena, un sonno inquieto e breve” (VI 20, 2).
Da molti giorni, aggiunge lo scrittore, si erano verificate delle scosse di terremoto “senza però vi si facesse gran caso, perché in Campania frequenti” (come si vede, a distanza di tanti secoli non è che sia cambiato tanto…).
A un certo punto madre e figlio si rifugiarono nel cortile della casa: qui il giovane, per “coraggio o incoscienza”, aveva preso un volume di Tito Livio e aveva iniziato a ricavarne degli estratti “come per passare il tempo”. (Sarà vero? O il dettaglio mira a fare colpo sul suo insigne lettore e ad assimilare il nipote al suo illustre zio?)
Arriva poi un amico di famiglia (appena venuto dalla Spagna) che, vedendo Plinio e la madre seduti nel cortile, “rimprovera lei per la propria indolenza e me per la spensieratezza” (VI 20, 6); intanto la luce del giorno si fa “incerta e quasi languida” e gli edifici intorno sono scossi dal sisma. Madre e figlio, finalmente, si decidono a uscire dall’abitato, seguendo la “folla sbigottita”.
Lo spettacolo si fa sempre più terribile: “i veicoli che avevamo fatti predisporre, benché il terreno fosse piano, rinculavano e neppure con il sostegno di pietre rimanevano al loro posto; pareva inoltre che il mare si ripiegasse su se stesso, quasi respinto dal tremar della terra. […] Dal lato opposto una nube nera e terribile, squarciata da guizzi serpeggianti di fuoco, si apriva in vasti bagliori di incendio” (VI 20, 9).
L’amico di famiglia a questo punto fugge, invitando Plinio e la madre a imitarlo; ma la richiesta non viene accolta, perché i due familiari attendono notizie dello zio. Intanto la nube si abbassa verso terra e copre il mare: “nascose Capri, tolse di vista il promontorio di Miseno” (VI 20, 11). La madre invita il figlio a lasciarla e a mettersi in salvo, ma lui si oppone recisamente, la prende per mano e la invita ad affrettare il passo.
Arriva la notte, una notte oscura quanto mai: “non come quando non v’è luna o il cielo è nuvoloso, ma come quando ci si trova in un locale chiuso a lumi spenti” (VI 20, 14). Nel buio pesto, si avvicendano suoni e rumori sempre più angoscianti: “Udivi i gemiti delle donne, i gridi dei fanciulli, il clamore degli uomini; gli uni cercavano a gran voce i genitori, altri i figli, altri i consorti, li riconoscevan dalle voci; chi commiserava la propria sorte, chi quella dei propri cari; ve n’erano che per timore della morte invocavano la morte; molti alzavano le braccia agli dèi, altri più numerosi dichiaravano che non v’erano più dèi e che quella era l’ultima notte del mondo. Né mancavano coloro che accrescevano i pericoli veri con immaginari e menzogneri terrori” (VI 20, 15-16). Intanto continuava un’incessante pioggia di cenere.
Plinio aggiunge una nota autobiografica un po’ vanagloriosa: “Potrei vantarmi di non aver lasciato sfuggire in così pericolosi frangenti né un lamento né una espressione men che virile, se non avessi trovato un disperato eppur gran conforto alla morte nel pensiero che io perivo insieme a tutti e con me il mondo” (VI 20, 17).
Infine quella notte di tregenda finì, la caligine “si attenuò e svanì in una specie di fumo o di nebbia”; fece giorno, ma il sole apparve “livido, come quando è in eclisse” (VI 20, 18). Il paesaggio era irriconoscibile, mutato, “ricoperto da una spessa coltre di cenere, come fosse nevicato”.
Plinio e la madre rientrarono a Miseno e trascorsero là un’altra notte “affannosa e incerta fra la speranza e il timore”, sempre in attesa delle notizie dello zio (VI 20, 19).
Qui la lettera si chiude con un’ulteriore manifestazione della falsa modestia dell’autore, che ostenta di ritenere la sua relazione non degna né di un’opera storica né del genere epistolare: “Questi particolari, non certo degni di storia, li leggerai senza valertene per i tuoi scritti e imputerai a te stesso, che me ne hai richiesto, se non saranno degni neppure di una lettera” (VI 20, 20).
Come si può vedere, Plinio il Giovane mantiene un tono descrittivo e ben poco patetico, nonostante la drammaticità dello scenario; questo richiedeva, a suo parere, il “compito” assegnatogli stavolta non dall’ormai defunto zio bensì dall’insigne amico Tacito. Mancavano del tutto, del resto, all’autore comasco le competenze scientifiche per poter aggiungere osservazioni più “tecniche” e precise. Tuttavia le due lettere costituiscono un documento importante e, al di là dell’egocentrismo narcisista dell’autore, presentano anche qualche momento più efficace (la descrizione della notte oscura e caotica, le immagini sconvolgenti del cataclisma, il ricordo degli affetti familiari).
Plinio (che restò, beato lui, “il Giovane” per sempre) percorse poi un brillante e normalissimo “cursus honorum”: fu questore, tribuno e pretore sotto Domiziano.
Fu sempre una brava persona, affabile, cordiale, di non altissimo livello intellettuale ma corretto e leale. Grazie alla sua cospicua ricchezza, Plinio il Giovane fu anche un benefattore: nella sua Como istituì un sussidio alimentare per i bambini poveri, favorì le scuole locali assumendo maestri, fondò una biblioteca pubblica e creò delle terme.
Certo, era pieno di sé, anche troppo; non aveva torto Niccolò Tommaseo quando lo definì così: “il cuore di lui è un bel cuore; ma egli ne fa troppa mostra, e pare che nelle sue lettere si venga, quasi donna in ispecchio, vagheggiando” (Dizionario d’Estetica, Milano 18603, p. 360).
La sua onestà brillò soprattutto nell’anno 100, allorché sostenne con l’amico Tacito l’accusa contro Mario Prisco, governatore della provincia d’Africa, accusato di concussione e omicidio. Fu però tenace adulatore dei potenti: all’imperatore Traiano rivolse uno sperticato “Panegirico” (destando in era moderna lo sdegno di Vittorio Alfieri, che ne fece una polemica riscrittura).
Nel 111 l’imperatore lo inviò in Bitinia come governatore: e qui Plinio confermò le sue doti di amministratore scrupoloso, anche se spesso incapace di prendere provvedimenti senza chiedere consiglio (ad esempio nella gestione dei primi processi ai cristiani). Ricopriva ancora questa carica quando morì, nel 113 o 114, a poco più di 50 anni d’età.
Fra le tante opere di Plinio a noi è giunto solo l’Epistolario in 10 libri: si tratta (come si è visto) di lettere realmente inviate, ma destinate alla pubblicazione e quindi molto “limate” e ricercate stilisticamente; affrontano temi di attualità, costituendo una sorta di interessante “blog” ante litteram che ci offre uno spaccato interessante della vita del tempo.