“Il canto di Polifemo” di Lidia Ferrigno

La prof. Lidia Ferrigno, originaria di Vittoria (RG), ove risiede e ove ha insegnato, è una delle presenze culturali più importanti non solo della sua città natale, ma dell’intera Sicilia.

Poetessa sensibile e ispirata, ha pubblicato diverse raccolte, partecipando a concorsi nazionali e conseguendo importanti riconoscimenti; diverse sue poesie sono state inserite in antologie e riviste.

Qualche anno fa ha curato un libro sulla memoria del suo paese natale, “La lunga scia di zagare lontane. Storie di vita nella Sicilia del Novecento all’ombra della Casa Grande” (Armando Siciliano ed., Messina 2017); vi sono presentate storie di vita vissuta nel piccolo centro marinaro di Scoglitti. Del 2019 è invece “Il mio paese è Macondo – Racconti, miti, poesie”, caratterizzato da ricordi legati principalmente all’infanzia”.

Lidia Ferrigno

Divenuti “amici” su Facebook in modo piuttosto casuale, la prof. Ferrigno e io abbiamo avuto modo di condividere impressioni e riflessioni su vari argomenti, trovando sempre interessanti le considerazioni reciprocamente destate dai nostri scambi di opinione.

Di recente ho ricevuto da lei una sua composizione poetica che riprende un tema mitologico antico, quello dell’amore fra il ciclope Polifemo e la ninfa Galatea; il poemetto si intitola “Il canto di Polifemo”.

Inevitabilmente, prima ancora di iniziarne la lettura, il pensiero mi portava all’Idillio XI di Teocrito di Siracusa, intitolato “Il Ciclope”, in cui si narra la vicenda di Polifemo innamorato; qui il ciclope, lasciate le pecore incustodite, canta sul litorale il suo infelice amore per Galatea. Polifemo si rivolge alla bella Nereide con una serie di similitudini tratte dal mondo pastorale (“più bianca del formaggio / d’un agnello più tenera, più altera / d’una vitella”, vv. 28-30; “fuggi come una pecora che ha visto / un grigio lupo”, vv. 34-35, trad. V. Gigante Lanzara), attribuendo il rifiuto della fanciulla al proprio aspetto fisico sgradevole. Il ciclope però non demorde ed elenca altri motivi che dovrebbero indurre Galatea ad amarlo: egli ha infatti un gregge numeroso che gli fornisce abbondante nutrimento, sa cantare, alleva cervi e orsi e vive in un locus amoenus, una grotta confortevole. Stranamente però alla fine dell’idillio Polifemo decide di trovare un’altra donna, “anche più bella” (v. 111), rinunciando alla sua vana passione.

Al di là del tema tipicamente alessandrino dell’amore come malattia, lo spunto più interessante dell’idillio teocriteo è la rivisitazione di Polifemo. La vicenda deriva dal IX libro dell’Odissea, dedicato all’incontro fra il Ciclope ed Odisseo; e al modello omerico lo stesso Teocrito allude esplicitamente nel suo componimento, con espressioni ironiche, ma chiarissime per il lettore colto: “da parte tua sopporterei perfino / che mi bruciassi l’anima e perfino / l’occhio mio solo” (vv. 72-74), “se per caso qui giunge un forestiero a bordo d’una nave” (vv. 86-87).

Teocrito trascura i particolari mostruosi, su cui Omero aveva insistito, trasformando Polifemo in un giovane goffo e ingenuo, che riesce quasi a suscitare tenerezza; fra l’altro il poeta cerca di annullare la distanza, definendo Polifemo suo conterraneo (“il Ciclope nostrano”, ὁ Κύκλωψ ὁ παρ’ ἁμῖν, v. 10).

La rielaborazione teocritea era stata influenzata sicuramente da Euripide, che nel dramma satiresco “Il Ciclope” aveva proposto una rilettura del personaggio di Polifemo; pur rimanendo aderente al racconto omerico, il drammaturgo ateniese aveva colto nel mito gli elementi parodistici (ad es. descrivendo il gigante, ormai cieco, frastornato dalle indicazioni sbagliate dei satiri, che gli fanno sbattere la testa su una roccia).

Il tema dell’innamoramento di Polifemo per Galatea risale però verosimilmente a un precedente ditirambo di Filosseno di Citera (V-IV sec. a.C.); dopo Teocrito, questa variante del mito ispirò altri poeti (ad es. Callimaco negli “Epigrammi” ed Ermesianatte nella “Leonzio) e lo scrittore satirico Luciano di Samosata nei “Dialoghi marini” (II 2).

Da questi spunti culturali è partita Lidia Ferrigno, pensando però a un modo “altro” di vedere Polifemo: «mi ha attirato forse la sua “diversità” – mi scrive così – e volevo tramite tale personaggio veicolare una proposta, una provocazione, quella di vivere l’amore in modo puro e pienamente condiviso. […] Potevo raccontare la storia in tanti altri modi, ma è questo Polifemo che si è impossessato della mia mente, un diverso che scopre la sua diversità tramite l’amore che da un lato opera in lui un processo di umanizzazione (incompiuto), dall’altro lo dissocia, lo fa cadere in depressione».

Per capire meglio la prospettiva della poetessa, analizziamo l’articolazione del poemetto.

I versi iniziali rievocano l’amore del Ciclope per Galatea: «Come era bella la nostra stagione… / Vieni da me ancora, Galatea, / emergi dalla schiuma che ti inonda».

Il ricordo della bellissima ninfa emerge vivido nelle parole del Ciclope e nel suo sguardo che «anela / inebriarsi / non di vino ingannevole / che trasborda i sensi / in labirinti oscuri senza pace, / ma dell’odore candido / che la tua pelle di latte e di perla / di conchiglia pregiata dei fondali / emana in lunga deragliante / scia».

Polifemo rievoca lo scenario in cui è vissuto, la «montagna inquieta / dove bambino vissi, / senza la tenerezza di uno sguardo / o sorriso indulgente di una madre».

Il Ciclope era infatti figlio del dio Poseidone e della ninfa Toosa, figlia di Forco. Non si sa per quali capricci genetici, da una divinità marina e da un’affascinante ninfa era nato il mostruoso ciclope; ma nonno Forco, figlio a sua volta di Ponto e Gea, il Mare e la Terra, aveva evidentemente nel suo DNA qualche gene impazzito, se è vero che – sposatosi con la sorella Ceto – generò mostruose creature come le Gorgoni, le Graie, Echidna (metà donna e metà serpente), numerosi mostri marini e persino il drago che custodiva i pomi dorati nel giardino delle Esperidi.

Polifemo interpretato da Sam Burke nell’Odissea televisiva diretta da Franco Rossi (1968)

Comunque sia, Polifemo è stato precocemente abbandonato dalla madre e ha vissuto un’esistenza solitaria, essendo per di più vittima di dileggi e di aspre critiche: «Rozzo i poeti dissero di me, / brutale come bestia / che le carni divora degli umani, / io sempre solo / in preda al gran silenzio / solo echeggiante / di muggiti e belati, / di folate di vento / e rovinio di nevi e di tempeste».

Ma un giorno avviene il miracolo e il mostro vede per la prima volta la ninfa che gli fa battere il cuore; quell’apparizione lo trasforma e lo migliora: «E poi ti vidi / e la crudezza persi, / cadde dal cuore in petto / la ferocia / come frutto che pende / e che da troppo aspetta / d’essere assaporato / da rosse labbra, / turgide gemme in boccio».

La nuova dimensione sentimentale azzera la violenza bestiale del ciclope e ne fa (o svela finalmente in lui) una creatura sospirosa e sensibile: «Io no, non ghermire ti volli / ma sfiorare / come fior di ciliegio che a un soffio / si disfa e vola a perdersi lontano; / io no, non volli perderti: / con il solo respiro del mio cuore / toccai i tuoi pensieri non ancora / volti al richiamo / di un amore assai strano, / assai diverso».

La mutazione, è progressiva, repentina e inarrestabile: «E a vederti così inerme e piccola / la voce mi si sciolse / come ghiaccio / che al tepore si incrina, / e un suono nuovo dal mio petto usciva, / un fil di voce appena percepibile / che non riconoscevo / e diceva parole dette mai».

L’innamorato ha pazienza, attende che il suo amore “impossibile” possa concretizzarsi («t’avrei sempre invocata fino a quando / gli abissi più profondi / non avesse varcato il mio richiamo»). L’attesa però è lunga e dolorosa, perché Galatea fugge “atterrita” dall’orribile aspetto del ciclope: «altrove volgevi sguardo e riso / e atterrita fuggivi le mie impronte, / la vista spaventosa del mio corpo / che dal dio padre ricevetti in sorte / non so se in dono o distrazione / o beffa».

Vedendosi respinto e rifiutato, Polifemo si nasconde, mentre la follia torna ad annidarsi nel suo petto, inducendolo a disprezzarsi: «Io nascondermi volli, / mi rintanai dentro la follia / che mi covava come serpe / in petto, / in odio di me stesso». L’infelice non vuole neanche più dissetarsi, per non scorgere – riflesso in una fonte – il suo volto orribile.

Un giorno però, alla fine dell’inverno, il “mostro gigante” vede qualcosa che mai avrebbe voluto vedere: «ti vidi in un anfratto fra le braccia / di un giovane che impresse aveva in volto / le sembianze di un dio mai conosciuto, / dalle membra sottili e armoniose, / dai capelli che a onde / le spalle sue sfioravano brunite».

La rabbiosa gelosia per il giovane Aci, figlio del dio fluviale Fauno e della ninfa Simetide, che ha conquistato l’amore di Galatea, scatena la violenza bestiale di Polifemo: «La bestia in me si risvegliò, / risorse, / né placare la volli o ammansire, / l’aizzai a venir fuori con ruggiti / così potenti e forti / da svegliare dal sonno la montagna / che dal di dentro implose / e furibonda anch’essa incominciò / a vomitare rivoli di fiamme, / a scagliare lapilli contro il cielo / a spaccare la roccia, / a frantumarla / con boati confusi alle mie grida».

Galatea riesce a mettersi in salvo immergendosi nell’acqua, mentre il giovane pastore viene colpito dai giganteschi massi lanciati dal ciclope: «presi / uno dei massi rotolati a terra / e lo lanciai invocando il padre / con tutto il fiato urlando / e lo travolsi».

Aci viene allora trasformato in scoglio, a perenne memoria della terribile ira di Polifemo; di fronte alla morte del ragazzo amato, Galatea resta affranta e piange disperata, facendo così svanire la nebbia che ha coperto la mente di Polifemo: «E fu il tuo pianto / a togliermi la nebbia dalla mente».

Il disperato dolore di Galatea penetra nei fondali marini e raggiunge Toosa, la madre di Polifemo: «Penetrò il tuo dolore nei fondali / più remoti e profondi, / l’udirono le ninfe tue sorelle, / l’udì nelle acque immemori e lontane /anche Toòsa, / che dicono mi abbia generato / dal forte abbraccio del dio maestoso / signore d’ogni mare, / e tra le altre / creature di terra qui lasciato».

Il ciclope rievoca, dolorosamente, l’assenza spaventosa della madre nella sua vita: «Non volle mai vedermi, mai parlarmi / conscia dell’incolmabile distanza / voluta fin da subito per noi: / lei lieve a fluttuare nelle onde / io pesante a guidare per pendii / con un tronco di pino le mie greggi, / solo, senza una traccia di ricordo, / di parole a conforto, di carezza».

Quando Galatea incontra Toosa, Polifemo resta profondamente turbato: «E fosti tu, mia dolce Galatea, / a rivelarne il nome al suo apparire: / e a me sconvolto vacillò la terra, / per poco non scappò dal petto il cuore, / a stento l’urlo ricacciai in gola / e stramazzato non crollai a terra».

Il ciclope, nascosto, assiste non visto all’incontro fra la ninfa e la madre; quest’ultima rivolge alla fanciulla parole inaspettate, perorando la causa del figlio e assolvendolo dall’accusa di aver ucciso Aci: «lei / fra le braccia tenendoti / parole ti diceva / che non avrei pensato d’ascoltare. / Che a colpire il pastorello Aci / con la pesante roccia / da lontano, / non avrei mai potuto essere io / che per quanto sia forte / un dio non sono, / ma il padre mio, / ad ira mosso e offeso / dalla scelta d’amore della ninfa / che il figlio aveva accolto / di un dio minore disprezzando il suo». Il “mandante” del delitto e l’esecutore materiale era dunque il dio Poseidone, offeso (per un arrogante senso “di casta”) dal rifiuto di Galatea nei confronti di suo figlio.

Galatea, intimidita, chiede perdono “al dio implacabile” e domanda aiuto a Toosa; la madre di Polifemo allora parla della stirpe dei ciclopi, dell’aiuto dato da loro a Zeus “nella conquista del suo nuovo regno”, del loro insediamento in Sicilia, «l’isola ventosa / in ogni tempo dal sole baciata, / che cela il fuoco / dentro la montagna / per le loro fucine sempre accese». Da quell’isola felice dovettero andar via i Feaci, che prima «vivevano beati / nella città d’Ipperia»(la futura Camarina). Il prezzo da pagare per i ciclopi fu l’isolamento: «per volontà dei Numi Polifemo / dall’umano consorzio / era costretto a vivere / lontano».

Dopo aver così perorato la causa del figlio, Toosa supplica Galatea di averne pietà; ascoltando queste parole senza esser visto, Polifemo scoppia in lacrime: «Le sue parole furono per me / onda che mi travolse impetuosa; / un fremito mi scosse, / in singhiozzi proruppi, / infine piansi: / e fu la prima volta».

Il pianto umanizza il mostro, lo rende pari agli esseri umani; seguendo un impulso irrefrenabile, egli esce dal nascondiglio e corre incontro alla madre; esprimendosi nel dialetto dell’isola (anzi, come precisa l’autrice, in puro dialetto vittoriese), la prega ardentemente di restare, di farsi abbracciare e di non abbandonarlo più: «Matri nun ti nni iri, / cchi disiu di stringiriti ca cciaiu, / na vita ca ti viru sulu ‘n suonnu, / ca mi pari / di sentiri a to vuci / di viriri a to facci / d’essiri accarizzatu de to mani! / Quantu scunfuortu quannu rapu l’uocci / e mi ’naddugnu ca nun era veru …/ Ora si cca, ammoviti, / nun ti nni puoi iri n’atra vota» (Madre non te ne andare, / che desiderio ho di stringerti, / una vita che ti vedo solo in sogno / che mi sembra / di sentire la tua voce / di vedere il tuo viso / di essere dalle tue mani accarezzato! Quanto sconforto quando apro gli occhi / e che non era vero io m’accorgo … / Ora sei qua, rimani, / Non te ne puoi andare un’altra volta”).

La madre però, nonostante l’accorata invocazione del figlio, svanisce; lui resta allora a lungo “inginocchiato a guardare il vuoto”, quando a un tratto si sente accarezzare: è Galatea, che ormai non prova più ribrezzo per il ciclope: «quando ad un tratto / sentii in un tocco sfiorarmi i capelli: / eri tu, Galatea, / che senza più timore / accarezzavi piano la mia guancia / senza ribrezzo del mio solo occhio / dell‘ispido mio capo / del mio sgraziato corpo».

La ninfa svela quello che le era stato detto da Toosa; Polifemo allora capisce la lunga sofferenza della madre: «essa soffriva del dolore mio, / fin da quando a lasciarmi / era stata costretta, / e non come io credevo / per la diversità del corpo mio / ma perché accade quel che vuole il dio».

Come spiega l’autrice, «Toosa è la madre assente materialmente, però mentre in Teocrito non mette mai una buona parola, cosa di cui il personaggio si lamenta, la mia Toosa è la “mater” presente pur nell’assenza dovuta a un destino che è “anànche”, necessità imperscrutabile».

Madre e figlio, in questa prospettiva, si rivelano inconsapevoli strumenti del fato: «La madre e io / strumenti di un destino / che non noi abbiamo scelto, / inamovibile / come quella montagna in cui crebbi / indurendo il mio cuore come un masso».

Concludendo quello che si rivela come un lungo flash-back, Polifemo, alla fine dei suoi giorni, fa un bilancio della sua vita con Galatea, iniziata in quel giorno lontano e indimenticabile. La ninfa tanto amata ha “ingentilito” il ciclope, lo ha “umanizzato” e lo ha reso padre di tre figli; la loro stagione felice fu breve ma intensa, assaporata “tutto d’un fiato” prima dell’inevitabile conclusione che attende ogni gioia umana, “fugace e breve come ogni cosa che appartenga al tempo” (L. Ferrigno): «Mi ingentilì il tuo amore, Galatea, / che tre figli mi desti come a uomo, / perché tale io divenni / per la stagione che fu data a noi / che sapevamo già / fugace e breve, / stagione che bevemmo / tutto d’un fiato in ogni suo momento / prima che buio intorno si facesse / e l’eco tra le cime si perdesse / di noi che siamo / ombre leggere, nuvole fugaci».

Il poemetto di Lidia Ferrigno ha il merito di rielaborare con profonda sensibilità il mito antico, riconfermandone (se ce ne fosse bisogno) la inesauribile vitalità e produttività. Il mostro cannibale di Omero e il buffo innamorato teocriteo si trasformano qui in una creatura sensibile, che ha conosciuto la solitudine, l’emarginazione e il dolore, ma che sa amare e riesce, grazie all’amore, a riacquistare la dimensione umana che è stata sempre latente in lui.

L’amore della madre Toosa e la sensibilità di Galatea compiono il miracolo di trasformare il ciclope in un uomo come gli altri, padre di figli, “ingentilito” e (si direbbe con Dante) “puro e disposto a salire alle stelle”.

Trascrivo qui il testo integrale del carme, per consentire al lettore di leggerlo senza più chiose e interruzioni, godendone anche (al di là del profondo messaggio ad esso sotteso) la musicalità, il fluire armonioso dei versi e la scelta lessicale accuratissima e raffinata.

IL CANTO DI POLIFEMO

di Lidia Ferrigno

Come era bella la nostra stagione …

Vieni da me ancora, Galatea,

emergi dalla schiuma che ti inonda

e a rivoli discende

dalle chiome di alga rilucente

dai tuoi seni di pesca ancora acerba

che pudibonde mani

nascondono allo sguardo di chi anela

inebriarsi

non di vino ingannevole

che trasborda i sensi

in labirinti oscuri senza pace,

ma dell’odore candido

che la tua pelle di

latte e di perla

di conchiglia pregiata dei fondali

emana in lunga deragliante

scia

che il vento va portando a fior delle onde

fino alla più alta vetta

della montagna inquieta

dove bambino vissi,

senza la tenerezza di uno sguardo

o sorriso indulgente di una madre.

Rozzo i poeti dissero di me,

brutale come bestia

che le carni divora degli umani,

io sempre solo

in preda al gran silenzio

solo echeggiante

di muggiti e belati,

 di folate di vento

e rovinio di nevi e di tempeste.

E poi ti vidi

e la crudezza persi,

cadde dal cuore in petto

la ferocia

come frutto che pende

e che da troppo aspetta

d’essere assaporato

da rosse labbra,

turgide gemme in boccio.

Io no, non ghermire ti volli

ma sfiorare

come fior di ciliegio che a un soffio

si disfa e vola a perdersi lontano,

io no, non volli perderti:

con il solo respiro del mio cuore 

toccai i tuoi pensieri non ancora

volti al richiamo

di un amore assai strano,

assai diverso.

E a vederti così inerme e piccola

la voce mi si sciolse

come ghiaccio

che al tepore si incrina,

e un suono nuovo dal mio petto usciva,

un fil di voce appena percepibile

che non riconoscevo

e diceva parole dette mai,

che al di là del tempo e delle ore,

al di sopra le vette di montagne

dove nere s’ammassano nuvole

t’avrei sempre invocata fino a quando

gli abissi più profondi

non avesse varcato il mio richiamo.

Lungo come gli inverni senza sole

fu dell’attesa il tempo,

mentre altrove volgevi sguardo e riso

e atterrita fuggivi le mie impronte,

la vista spaventosa del mio corpo

che dal dio padre ricevetti in sorte

non so se in dono o distrazione

o beffa.

Io nascondermi volli,

mi rintanai dentro la follia

che mi covava come serpe

in petto,

in odio di me stesso, della luce

che dalle cime scivolava ai fianchi

di vallate distese,

di dirupi precipiti e scoscesi.

Bere non volli più ad una fonte

per non vedere il mio deforme volto

in segmenti traballanti e incerti

ributtante riflesso, 

evitato da tutti

sbeffeggiato.

E un mattino di disgelo tiepido

mentre vagavo in cerca di me stesso,

io né uomo né dio

che il Cieco definì mostro gigante

a un picco roccioso somigliante

non a un uomo che

mastica pane,

ti vidi in un anfratto fra le braccia

di un giovane che impresse aveva in volto

le sembianze di un dio

mai conosciuto,

dalle membra sottili e armoniose,

dai capelli che a onde

le spalle sue sfioravano brunite.

La bestia in me si risvegliò, 

risorse,

né placare la volli o ammansire,

l’aizzai a venir fuori con ruggiti

così potenti e forti

da svegliare dal sonno la montagna

che dal di dentro implose

e furibonda anch’essa incominciò 

a vomitare rivoli di fiamme,

a scagliare lapilli contro il cielo

a spaccare la roccia,

a frantumarla

con boati confusi alle mie grida.

Facesti appena in tempo, Galatea,

 a immergerti e sparire nella pozza

 d’acqua che ristagnava nella grotta

mentre il pastore che ti era accanto

cercò fuggendo di trovare scampo

agile nella corsa

simile a un cervo che

la saetta scoccata teme e fugge.

Non potevo inseguirlo:

come un lampo era ormai vicino al mare

e impotente io già lo vedevo

a un punto ridotto

quando presi

uno dei massi rotolati a terra

e lo lanciai invocando il padre

con tutto il fiato urlando

e lo travolsi.

Rotolò insieme ad esso e si fissò

nel mare come scoglio,

per i viventi segno

della tremenda ira del dio offeso.

Attonito, stordito dal silenzio

che all’improvviso mi piombò addosso,

volsi lo sguardo in alto, alla montagna,

e fremere la vidi

di un ultimo sussulto

e poi tacere,

come bestia accasciata

che a sé trattiene la preda straziata.

E fu il tuo pianto

a togliermi la nebbia dalla mente

e le alte grida a ferire il cielo

che le onde tagliavano del mare

da cui eri riemersa

incredula

aggrappata a una pietra

insensibile, muta,           

la stessa che appena poco prima 

teneramente tu chiamavi Aci.

Penetrò il tuo dolore nei fondali

più remoti e profondi,

l’udirono le ninfe tue sorelle,

l’udì nelle acque immemori e lontane

anche Toòsa,

che dicono mi abbia generato

dal forte abbraccio del dio maestoso

signore d’ogni mare,

e tra le altre

creature di terra qui lasciato.

Non volle mai vedermi, mai parlarmi

conscia dell’incolmabile distanza

voluta fin da subito per noi:

lei lieve a fluttuare nelle onde

io pesante a guidare per pendii

con un tronco di pino le mie greggi,

solo, senza una traccia di ricordo,

di parole a conforto, di carezza.

E fosti tu, mia dolce Galatea,

a rivelarne il nome al suo apparire:

 e a me sconvolto vacillò la terra,

per poco non scappò dal petto il cuore,

a stento l’urlo ricacciai in gola

e stramazzato non crollai a terra.

Mi avvicinai alla riva di nascosto,

acquattato rimasi

dietro massi e sporgenze

per vederla non visto,

mentre lei

fra le braccia tenendoti

parole ti diceva

che non avrei pensato d’ascoltare.

Che a colpire il pastorello Aci

con la pesante roccia

da lontano,

non avrei mai potuto essere io

che per quanto sia forte

un dio non sono,

ma il padre mio,

ad ira mosso e offeso

dalla scelta d’amore della ninfa

che il figlio aveva accolto

di un dio minore disprezzando il suo.

Alle parole sue la paura

di avere fatto torto al dio potente

che le terre fa emergere e affonda,

ancor più ti sconvolse: 

atterrita in ginocchio 

perdono al dio implacabile implorasti

e alla ninfa sorella al dio cara

ti rivolgesti per avere aiuto. 

Impietosita essa allora sciolse

tutti i segreti che portava in cuore:

conosceva già prima quanta pena

fosse legata a quel divino amplesso,

e non a lei soltanto

ma anche all’infelice sua creatura,

progenie della stirpe dei Ciclopi

che in aiuto andarono

di Zeus

nella conquista del suo nuovo regno.

Di mura enormi fabbricanti esperti

le città circondarono

a difesa,             

per sede scelta l’isola ventosa

in ogni tempo dal sole baciata,

che cela il fuoco

dentro la montagna

per le loro fucine sempre accese.

Lì nella punta estrema che s’affaccia

tutta sul mare da navi solcato

i Feaci vivevano beati

nella città d’Ipperia 

che a lasciare furono costretti

minacciati da essi,

per onorare il patto con gli dei

di mai toccare armi e fare guerra.

 E come gli altri della stirpe sua,

 – lei ti disse –

per volontà dei Numi Polifemo

dall’umano consorzio

era costretto a vivere

lontano.

Ti supplicò ancora

di volgere il tuo cuore a compassione

per quell’ amore, il mio,

non mai provato da uomo né dio.

Le sue parole furono per me

onda che mi travolse impetuosa;

un fremito mi scosse,

in singhiozzi proruppi,

infine piansi:

e fu la prima volta.

La prima volta che dentro mi parve

d’essere diventato quasi uomo,

e paura ne ebbi nell’istante

mista però al sollievo

di non sentirmi o essere diverso,

mostro senz’anima.

Così turbato, scosso

uscii d’impulso

dal nascondiglio per correrle incontro

e come un pazzo “Matri!”  

  • senza volerlo cominciai a gridare –

“Matri nun ti nni iri, 

cchi disiu di stringiriti ca cciaiu, 

na vita ca ti viru sulu ‘n suonnu,   

ca mi pari                                            

di sentiri a to vuci                             

di virriri a to facci                             

d’essiri accarizzatu de to mani!     

Quantu scunfuortu quannu rapu l’uocci 

e mi ’naddugnu ca nun era veru …           

Ora si cca, ammoviti,                                   

nun ti nni puoi iri n’atra vota”.          

Ma tempo non mi diede,

al mio apparire 

essa già più non c’era:

un gorgo d’acqua,

a cerchio in vortichìo

fu quel che vidi.

A lungo stetti 

inginocchiato a guardare il vuoto

quando ad un tratto

sentii in un tocco sfiorarmi i capelli:

eri tu, Galatea,

che senza più timore

accarezzavi piano la mia guancia

senza ribrezzo del mio solo occhio

dell‘ispido mio capo

del mio sgraziato corpo.

E fosti sempre tu a rivelarmi

quel che la madre a lei affidato aveva:

che essa soffriva del dolore mio,

fin da quando a lasciarmi

era stata costretta,

e non come io credevo

per la diversità del corpo mio

ma perché accade quel che vuole il dio.

La madre e io

strumenti di un destino

che non noi abbiamo scelto,

inamovibile 

come quella montagna in cui crebbi

indurendo il mio cuore come un masso

e imparando da chi mi stava intorno,

greggi e stormi d’uccelli,

da belve che si straziano a vicenda

in cerca sempre e mai di prede sazie.

Mi ingentilì il tuo amore, Galatea,

che tre figli mi desti come a uomo,

perché tale io divenni

per la stagione che fu data a noi

che sapevamo già

fugace e breve,

stagione che bevemmo

tutto d’un fiato in ogni suo momento

prima che buio intorno si facesse  

e l’eco tra le cime si perdesse

di noi che siamo

ombre leggere, nuvole fugaci.

Di Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico "Andrea D'Oria" e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all'Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E' sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.

1 commento

  1. Analisi dotta, puntuale e approfondita del testo che aiuta il lettore a coglierne gli aspetti più significativi e anche solo accennati o sottaciuti con un corredo di citazioni e riferimenti culturali notevole
    Complimenti e grazie infinite.

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