Il canto dei cigni nel “Fedone” di Platone

Il “Fedone” (Φαίδων) di Platone racconta l’ultimo giorno di vita di Socrate. Il filosofo, condannato a morte, attende in carcere di bere la velenosa cicuta per porre fine alla sua esistenza.

In quelle ore, con assoluta serenità, discute con i suoi discepoli e dimostra loro l’immortalità dell’anima.

Innanzitutto ricorre all’argomentazione dei contrari: nell’universo, ogni cosa nasce dal suo contrario (forte-debole, sonno-veglia, ecc.), per cui anche fra vita e morte occorre ammettere lo stesso rapporto, in nome della circolarità naturale dell’esistenza.

Il secondo argomento è la reminiscenza (ἀνάμνησις), secondo cui la conoscenza è “ricordo” preesistente al corpo: l’anima, “incarnandosi” nel corpo, ha dimenticato le “idee” contemplate nel precedente periodo di esistenza oltremondana, ma talora ha dei bagliori di memoria, per cui aspira alla contemplazione del Bello in sé.

Infine, basandosi sul principio di non contraddizione, Socrate afferma che un’idea non può contenere in sé l’idea contraria; pertanto, siccome l’anima partecipa dell’idea della vita e il contrario della vita è la morte, l’anima risulta estranea alla morte, ἀθάνατος “immortale”.

Nel passo che qui esaminiamo (Fedone 84 c- 85 b) Socrate ha appena terminato di riflettere sulle caratteristiche dell’anima del filosofo, che è lontana da piaceri e dolori e, con la morte, si libera da ogni male umano.

Il lungo silenzio che inizia la fase successiva non è casuale: esso “ha il preciso scopo di indicare che la prima parte del dialogo si è conclusa e che ne inizierà una nuova, la quale ci porterà su un piano teoretico ancora più elevato” (G. Reale, Platone – Fedone, Rusconi, Milano 1997, p. 296).

Simmia e Cebete, insoddisfatti del precedente ragionamento, vorrebbero ancora discutere. Il quadro è molto vivace e realistico: i due discepoli si toccano il gomito, si sollecitano l’un l’altro a parlare, ma temono di infastidire Socrate o, peggio, di smantellare le certezze costruite dal Maestro sulla sorte che lo attende dopo la morte (84d). La prima reazione di Socrate è piuttosto amara: “fino ad ora Socrate non ha fatto che parlare della serenità con cui il Saggio deve affrontare la morte, dato che essa per lui altro non è se non una liberazione dell’anima da ciò che la stringe alla materia, ed ecco che proprio i suoi discepoli, iniziati alla sua scuola, gli mostrano dei riguardi come verso chi si avvia a un passo particolarmente grave!” (N. Casini, Platone – Il Fedone, Le Monnier, Firenze 1984, p. 94).

In risposta alle perplessità dei discepoli, il filosofo introduce una breve similitudine: come i cigni prima di morire cantano il loro canto più bello, felici perché stanno per tornare dal dio, così Socrate, “compagno di servitù” (ὁμόδουλος, 85b) dei cigni e sacro allo stesso dio Apollo (dio dei vaticini), prova analoga letizia nell’abbandonare la vita; inoltre, come il canto dei cigni risulta affascinante e veritiero, così anche l’ultimo messaggio del filosofo prefigura l’evento più bello (cioè la futura esistenza felice) con assoluta fiduciosa certezza.

L’opinione secondo la quale i cigni, sacri ad Apollo, in punto di morte canterebbero il loro canto (più bello o più lamentoso secondo le varie fonti), è più volte attestata nelle opere letterarie antiche:

  • la stretta associazione dei cigni ad Apollo è nota a Saffo (cfr. 208 V.) e ad Alceo (fr. 307c V.) ed è ricordata da Aristofane (cfr. Uccelli 769);
  • nell’Agamennone di Eschilo, Clitemestra dopo aver ucciso suo marito Agamennone gioisce anche per l’uccisione della sua concubina Cassandra: “lei, invece, la sua amante, giace dopo aver cantato come un cigno l’ultimo lamento di morte; e a me ha portato in più un gradevole condimento del mio piacere” (vv. 1444-1445, trad. Di Benedetto);
  • Aristotele afferma che i cigni sono “canori” e che cantano soprattutto quando sono vicini alla morte (ᾠδικοὶ δὲ καὶ περὶ τὰς τελευτὰς μάλιστα ᾄδουσιν, Storia degli animali IX 12, 615b);
  • in due favole esopiche si ricordano rispettivamente l’estremo canto del cigno, “preludio di morte” (θανάτου προοίμιον, 173 Chambry), e la notizia secondo la quale “i cigni si mettono a cantare al momento della morte” (τοὺς κύκνους φασὶ παρὰ τὸν θάνατον ᾄδειν, 174 Chambry);
  • Polibio considera espressione proverbiale la frase “cantare il canto del cigno” (XXXI 12, 1);
  • Cicerone, in un passo delle Tusculanae, riecheggia chiaramente il passo platonico del Fedone: “Ricorda, a questo punto, il comportamento dei cigni; essi che sono sacri ad Apollo non senza un motivo preciso, ma perché sembrano derivare da lui una facoltà divinatoria, come prevedendo il bene che la morte procura, muoiono con canti di letizia” (Tusculanae I 30, 73, trad. Demolli).

Si sono cercati appigli scientifici all’opinione degli antichi: “il cigno nordico (Cygnus musicus) può emettere un suono forte, simile a quello della tromba, e suoni più deboli e profondi che, se provengono da diversi cigni insieme, possono dare l’impressione di un canto” (cfr. Knaurs Lexicon der Symbole, München 1989, tr. it. Enciclopedia dei Simboli, Milano 1991, p. 120); ma in realtà le affermazioni relative al canto dei cigni sono totalmente infondate.

Il collegamento fra Platone ed i cigni ritorna in un famoso aneddoto di Diogene Laerzio: “Si narra che Socrate abbia sognato di avere sulle ginocchia un piccolo cigno che subito mise le ali e volò via e dolcemente cantò e che il giorno dopo, presentatosi a lui Platone come alunno, abbia detto che il piccolo uccello era appunto lui” (III 5, trad. Gigante).

Al termine del brano, Socrate ricorda il suo rapporto con Apollo in termini di λατρεία (“servitù”), come già aveva fatto nell’Apologia (23c 1).

Nel complesso, ai dubbi e ai timori dei discepoli Socrate oppone il suo discorso privo di incertezze: le sue parole testimoniano una gioia intima, profonda e sincera, basata sulla convinzione assoluta che la morte non sia una punizione da temere, ma una grazia da auspicare, in quanto liberazione ed inizio di una nuova vita.

Ecco il passo nella traduzione di Pierangiolo Fabrini:

[84c] Quando allora Socrate ebbe finito di parlare ci fu silenzio per lungo tempo; anche Socrate stesso, come era chiaro a guardarlo, era tutto assorto nel ragionamento che aveva esposto, e così la maggior parte di noi. Cebete e Simmia, però, discorrevano fra loro a bassa voce. E Socrate, accortosene, domandò loro: «Che c’è? disse, a voi pare forse che quello che s’è detto sia insufficiente? Perché certamente presenta ancora molte incertezze e molte obiezioni, almeno se si vuol trattare a fondo questi argomenti in modo adeguato. Ora, se ad altro avete il pensiero, non ho niente da dire; ma se avete una qualche difficoltà riguardo a queste cose, non abbiate alcuna esitazione a parlare voi stessi e [84d] ad esporre il vostro pensiero, se vi pare che in qualche punto si sarebbe potuto dir meglio, e a prendere di nuovo anche me insieme con voi, se credete che con il mio aiuto potrete trovare più facilmente una soluzione».

E Simmia disse: «Ebbene, Socrate, ti dirò la verità. Infatti è già da un po’ che ciascuno di noi due, trovandosi in dubbio, dà di gomito all’altro e lo sollecita a domandare, perché abbiamo bensì desiderio di ascoltarti, ma, d’altra parte, ci peritiamo di darti disturbo, nel timore di riuscirti fastidiosi per la presente sventura».

E Socrate, a queste parole, sorrise leggermente e disse: «Ahimè, Simmia! Mi sarà davvero ben difficile riuscire a persuadere gli altri [84e] che io non considero una sventura la mia sorte presente, dal momento che non riesco a persuadere nemmeno voi; anzi avete paura che io sia ora d’umore più difficile di quanto non lo fossi nella vita passata. E, a quanto pare, in fatto di arte divinatoria devo sembrarvi da meno dei cigni, i quali, non appena si accorgono di dover morire, sebbene cantino anche [85a] prima, intonano allora il loro canto più lungo e più bello, lieti come sono di stare per andarsene presso il dio a cui sono consacrati. E gli uomini, per la paura che hanno della morte, dicono il falso anche dei cigni, e affermano che essi, lamentando la loro morte, per il dolore innalzano il loro ultimo canto, e non tengono in conto il fatto che nessun uccello canta quando ha fame o freddo o prova qualche altro dolore, neanche l’usignolo stesso né la rondine né l’upupa, che sono appunto gli uccelli dei quali si dice che cantino piangendo di dolore. Ma né questi uccelli a me pare che [85b] cantino per dolore, e neanche i cigni; anzi i cigni, credo, perché sono gli uccelli di Apollo, sono indovini e, prevedendo i beni che li aspettano nell’Ade, cantano e gioiscono in quel giorno più che nel tempo precedente. Ora, anch’io credo di essere compagno di servitù dei cigni e consacrato allo stesso dio, e di possedere in misura non inferiore a loro l’arte della divinazione ricevuta dal nostro padrone, e così anche di allontanarmi dalla vita con non minore letizia di loro. Precisamente per questo, allora, dovete parlare e domandare ciò che vi piace, fino a che lo permettano gli Undici degli Ateniesi».

Di Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico "Andrea D'Oria" e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all'Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E' sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.

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