Quando ai genitori si dava del “vossìa”

Quando ero piccolo e venivo in vacanza a Bagheria, io e i miei genitori eravamo ospitati in casa di mia nonna paterna, Giovanna Pintacuda nata Sciortino. La nonna era nata il 13 settembre 1873 e quindi era già molto anziana; rimasta vedova prematuramente nel 1929, aveva cresciuto cinque figli, dei quali mio padre Totò era il più piccolo, essendo nato nel 1916.

Per tutta la vita, dopo la morte del marito, mia nonna non smise mai di vestire a lutto.

Non ricordo di averla mai vista indossare un abito a colori: nera d’estate, nera d’inverno, addirittura con un velo nero in testa quando usciva di casa (in genere solo per andare a Messa o nelle occasioni speciali); e nerovestita morì il 26 dicembre 1963.

Nonostante l’età molto avanzata, la nonna si aggirava sempre in casa intenta alle faccende domestiche: stendeva la biancheria utilizzando una lunga canna, puliva per terra, cucinava, lavava, organizzava tutto; accanto a lei erano le mie due zie “signorine”, Pinè (che era insegnante di Lettere) e Ciccina.

Mia nonna Giovanna fra i due figli Totò (a sinistra, mio padre) e Nino – 19 agosto 1961, Via Leonforte, Bagheria

Ebbene, sia le zie, sia i miei due zii paterni (Nino e Masino), sia ovviamente mio padre si rivolgevano alla nonna dandole del “vossìa”.

“Vossìa” in siciliano è contrazione di “vostra signoria”, ma nel dialetto “baarioto” era ulteriormente contratto in “assa”: ad esempio, quando le zie invitavano l’infaticabile nonna a sedersi, le dicevano “assa s’assietta”.

Insomma, nella famiglia di mio padre ai genitori si dava del “vossìa”, cioè del Lei; e ciò può testimoniare l’enorme rispetto e anche il timore reverenziale con cui ci si rivolgeva al padre e alla madre.

Mimmo Sciortino, mio lontano parente proprio da parte di mia nonna paterna, mi conferma (con la sua preziosa memoria storica) che anche nella sua famiglia questa consuetudine era immancabilmente rispettata; addirittura, sua nonna paterna si rivolgeva anche ai suoi fratelli dando loro del “vossìa”.

Va detto però che questa consuetudine cominciò spesso ad essere intaccata; ad esempio mi colpiva, già da “picciriddu” qual ero, il fatto che a casa dei miei nonni materni la situazione fosse differente: infatti mia madre (nata nove anni dopo mio padre, nel 1925) ai suoi genitori dava del “tu” e così facevano tutti i suoi numerosissimi fratelli e sorelle (erano in tutto dieci figli).

Mi chiedo ora se questa diversa maniera di chiamare i genitori dipendesse solo da quel decennio di differenza o se dipendesse invece dall’elasticità maggiore o minore delle famiglie.

Aggiungo anche che noi nipoti (io e i miei cugini Totuccio e Giovanna Pintacuda) a nonna Giovanna davamo senz’altro del “tu”, senza che lei se ne adontasse minimamente: paradossalmente, dunque, mio padre dava del “vossìa” a sua madre ma io alla nonna davo del “tu”!

Il “vossìa” era, sicuramente, un retaggio dei tempi antichi.

A questo proposito, mia cugina Giovanna (altra fonte inesauribile di notizie “datate”) mi ha citato un gustoso aneddoto: suo padre, mio zio Nino, chiese un giorno a un conoscente (più o meno suo coetaneo) perché si facesse ancora dare del “vossìa” dai suoi figli; la risposta fu: «Occorre che i figli abbiano rispetto». Mio zio allora, in modo un po’ irriverente, gli rispose: «Nelle preghiere tu a Dio dai del “tu” (“Padre nostro che sei nei cieli…), ma dai tuoi figli pretendi il “vossìa”! Ti credi dunque al di sopra di Dio?». Ragionamento ineccepibile…

Un’altra annotazione: quando ci si congedava da una persona degna del “vossìa” le si poteva augurare “sabbinirìca”; e qui mi domando se la contrazione provenisse da “assa binirìca” (cioè “vossìa mi benedica”) o da “u Signuri ‘a binirìca” (cioè “il Signore la benedica”); in altre parole, non si capisce bene chi dovesse essere il “benedetto”…

Quanto alle persone adulte di pari scala sociale, in genere si salutavano con un generico “salutamu” o con il rispettoso “baciamu li manu”.

Concludendo, vorrei sottolineare un errore che spesso mi capita di riscontrare nelle numerose fiction televisive ambientate in Sicilia: in esse, quando sentiamo i personaggi dare del “voi” a qualcuno, noi “locali” percepiamo un errore, dato che l’uso del “voi” nell’isola è stato sempre rarissimo (a parte i pochi anni in cui il fascismo lo impose); e se, soprattutto al Nord, si tende a fare di ogni Sud un fascio, va ribadito che la Sicilia non è Napoli.

Inoltre, nel palermitano non si usa né si usava nemmeno il “voscenza” che spesso si sente nelle fiction. Ci si chiede allora che cosa ci vorrebbe a chiedere una consulenza lessicale a qualcuno del luogo; il fatto è, però, che di simili dettagli non si cura più nessuno e anzi c’è un’idiosincrasia diffusa verso tali “pignolerie” (perché “pignoleria” è, al giorno d’oggi, voler far rispettare una qualunque regola…).

Mia nonna Giovanna nella sua poltrona preferita – Bagheria, 2 luglio 1962

Di Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico "Andrea D'Oria" e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all'Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E' sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.

2 commenti

  1. Anche a casa dei nonni materni( non ho conosciuto quelli paterni già deceduti quando sono nata) c’era la consuetudine del vossia, da noi usata solo nei confronti del nonno, a cui davano del vossia anche le figlie,generi, nipoti e il parentado tutto, ovviamente più giovane,ma, in segno di rispetto, anche gente estranea
    Era anche un segno di distinzione sociale, oltre che anagrafica.
    Per il saluto, l’immancabile sabbenerica, da tutti, parenti e mai baciamo li mani( da noi, se mai,vasammu i manu).
    Per certe perdite, marito ma soprattutto figli, il lutto era a vita e solo in certi ambienti si coprivano il capo con fazzoletto nero, che ricordo, o addirittura con lo scialluni, retaggio arabo.

  2. Caro prof,anch’io davo del “vossia”ai miei nonni e ai miei genitori.Oggi le mie nuore mi chiamano Giuseppe e fino a quando c’è “rispetto” devo considerarmi fortunato.

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