Il 30 luglio del 1789 a Palermo si preparava un’esecuzione capitale, da eseguire ai Quattro Canti mediante impiccagione. Tutta la città ne parlava, perché a salire sul patibolo sarebbe stata una terribile “serial killer”, nota come “la vecchia dell’aceto”.
Si chiamava Giovanna Bonanno (nata Fileccia) ed era stata condannata per una serie di avvelenamenti eseguiti per mezzo di una sua micidiale mistura; secondo la ricostruzione di Salvatore Salomone Marino, famoso studioso di folklore siciliano, in un articolo del 1880, un giorno questa Giovanna aveva saputo «d’una bambina che, assaggiando per sbaglio certo aceto per ammazzar li pidocchi, fu lì per lì per morirne con vomiti continui». La notizia «fece balenare una truce idea nella testa della Bonanno. La quale corre senza indugio a comprare due grani (quattro centesimi) del misterioso aceto, ne inzuppa del pane e lo somministra ad un cane… con soddisfazione s’accorge che il cane è morto vomitando cibo e bava, ma che non ha mutato colore, non è rimasto spasmodicamente contratto… e però lieta conclude: “Ecco un veleno sicuro, che dà il passaporto per l’altro mondo, senza farsi sospettare non che scoprire”. Siamo al 1786 e comincia la serie dei delitti».
Dai documenti processuali studiati da Salomone Marino risulta che la Bonanno aveva intrapreso la sua “carriera” di avvelenatrice seriale nella convinzione di svolgere una mansione civile altamente lodevole, finalizzata a riportare la serenità in famiglie turbate da tradimenti coniugali, violenze private o rapporti esacerbati; tramite il micidiale veleno, si potevano eliminare persone “scomode” senza lasciare alcuna traccia; certo, la “vecchia dell’aceto”, già che c’era, ne aveva approfittato per migliorare la sua esistenza, da sempre basata sull’accattonaggio e sulla lotta contro la nera miseria.
Verso le ore 22 d’Italia, cioè nel primo pomeriggio (le ore si contavano dall’Ave Maria, recitata al tramonto), tutto era pronto per “lo spettacolo”: un’esecuzione capitale era allora per la popolazione una sorta di “svago”, un diversivo dalla misera esistenza quotidiana, una manifestazione (in genere illusoria) di una “giustizia” di fatto inesistente.
Il macabro scenario viene così descritto dal romanziere palermitano Luigi Natoli (1857-1941) nel suo romanzo “La vecchia dell’aceto” (pubblicato a puntate sul “Giornale di Sicilia” nel 1927 e ristampato in volume a Milano nel 1950): «Verso le ventidue ore le quattro vie erano già affollate di gente che si contendeva i posti per veder meglio. […] I lunghi balconi dell’Ottagono, quelli della via Maqueda e di Toledo più vicini alla piazza erano gremiti di gente; la folla si addensava dai quattro lati, fitta, mareggiante e cresceva sempre trattenuta a una certa distanza dal palco da un doppio cordone di granatieri, che si prolungava in due file giù per il Toledo, dalla piazza Vigliena a quella di Marina per lasciar libero il passaggio al triste corteo della condannata. Il caldo era grande e il sole inondava la via Toledo e illuminava la forca, alla quale era appoggiata una lunga scala a pioli. Degli acquaioli ambulanti, con la cantimplora sul dorso e i bicchieri in mano e dei venditori di semi di zucca giravano tra la folla» (p. 380, dall’edizione di Flaccovio, rist. 1991; la “cantimplora” era un recipiente che si usava per raffreddare il vino o altre bevande, nel ghiaccio o nella neve).
A un certo punto giunge il corteo, preceduto dai funebri rintocchi provenienti dalla Chiesa degli Agonizzanti; era il segnale che indicava che la condannata era uscita dal carcere della Vicarìa (che si trovava nell’edificio prospiciente la piazza Marina, trasformato poi, a metà dell’Ottocento, in palazzo delle Finanze).
Ecco come Natoli prosegue la descrizione dell’evento: «Finalmente il corteo giunse: precedevano sbirri e algozini; poi la croce dei confrati degli Agonizzanti, indi, sorretta da due Bianchi, uno dei quali col Crocifisso in mano dava parole di conforto, veniva Giovanna Bonanno. Era spaventosa […]. Le avevano tagliato i capelli e denudato il collo grinzoso. Era livida e smarrita; gli occhi non le si vedevano perché era bendata, ma la bocca le si torceva spasmodicamente, spostando con moti convulsi il mento e il corpo agitato da frequenti scosse nervose, le gambe fiaccate. Ella sentiva il terrore della prossima morte; la sua era un’agonia consapevole» (p. 381).
I “Bianchi” erano una confraternita di ecclesiastici e gentiluomini, così chiamata dal colore delle tuniche; avevano il compito di confortare e sostenere moralmente i condannati alla pena capitale nei giorni precedenti l’esecuzione, tentando di indurli alla confessione e al pentimento; ai Bianchi la condannata era stata affidata tre giorni prima. Accanto alla Bonanno c’era un’altra donna, Maria Pitarra, mandante di uno dei suoi delitti e in fama anch’essa di fattucchiera, che era stata condannata a salire sul patibolo senza però essere giustiziata, per poi essere incarcerata a vita.
Il racconto continua: «Dalla folla si levavano imprecazioni, ingiurie e dileggi, senza pietà. Era una sorda ribellione dell’istinto popolare, ai cui occhi apparivano le ombre straziate delle vittime. Il corteo entrò nello steccato; ma gli sbirri, gli algozini, le guardie rimasero fuori; non era loro permesso entrare in quel recinto consacrato alla morte. Vi entrarono soltanto i Bianchi, le due ree, i confrati degli Agonizzanti e il Fiscale. […] Giovanna Bonanno fu fatta salire dai Bianchi per una scaletta sul palco e condotta a piè della scala a pioli, dove il boia, precedendola, cominciò a tirarla su, aiutato dal secondo boia che la spingeva di dietro, mentre il sacerdote diceva a voce alta le parole del Credo: “ascendit in coelum”. Gli altri Bianchi scesero allora dal palco. […] Allora il boia di sopra si aggrappò alla trave trasversale, fece calare sul collo della vittima il nodo scorsoio, su questo abbassò una tavoletta; il boia di sotto si abbrancò alle gambe della vecchia. Alla parola “Jesus”, un gruppo mostruoso si lanciò nello spazio: il boia di sopra, ritto coi piedi su la tavoletta, il boia di sotto pendulo alle gambe di Giovanna Bonanno. Un attimo. I due esecutori scesero e il corpo esanime della vecchia sbendata penzolò dal laccio, girando lentamente intorno a se stesso, come per mostrare alla folla di tutti e quattro i lati, il suo volto livido e orribile» (p. 381).
L’ultimo dettaglio coincide con la fine della giornata: «Il sole tramontava: gli ultimi raggi infiammando alcuni cirri di nuvole diffondevano una tinta sanguigna nell’aria e la forca e il cadavere di Giovanna Bonanno a quei riverberi rosseggiavano» (p. 382).
Ulteriori ricerche sulla “vecchia dell’aceto” furono ricostruite da Nicola Ratti nell’ “Archivio Storico Siciliano” del 1913, in cui furono pubblicati nuovi documenti, tra i quali l’interrogatorio della Bonanno e l’atto di morte, da cui risulta che il suo cadavere fu inumato nel cimitero della chiesa delle Anime dei corpi decollati al Ponte dell’Ammiraglio.
In seguito Rosario la Duca, altro insigne studioso di cronache palermitane, tornò ad occuparsi della vicenda nel suo libro “I veleni di Palermo” (ed. Esse, Palermo 1970); questo libro presentava una raffinatissima premessa di Leonardo Sciascia, che a proposito della “vecchia dell’aceto” concludeva ironicamente (e amaramente): «Dopo di lei l’intraprendenza industriale nel ramo ha un definitivo tracollo. Chi ha bisogno di un veleno se lo procura con la solita scusa dei ratti; o se lo distilla in casa… In quanto agli altri veleni, quelli «veri», siamo qui ad assorbirli. E non come Mitridate». Fatto sta, per Sciascia, che i veleni “veri” erano «i lenti e sottili veleni del vivere a Palermo», di gran lunga peggiori delle micidiali pozioni venefiche di Giovanna Bonanno.
In questo inizio d’estate ho riletto, dopo tanti anni, l’avvincente romanzo “La vecchia dell’aceto” di Luigi Natoli; anche stavolta sono stato attratto dal seducente meccanismo narrativo di quest’opera che – se così si può dire – procede all’inverso rispetto agli studi di Salomone Marino: lo studioso di tradizioni popolari desiderava giungere, nella ricostruzione della storia della famosa avvelenatrice, dalla “leggenda” alla “storia”; Natoli invece dalla “storia” (come sempre da lui accuratamente consultata) procede verso la “leggenda”, giostrando abilmente fra le notizie fornite dalla tradizione e la sua notevole inventiva.
E se, come diceva giustamente Umberto Eco a proposito dei “Beati Paoli” (principale romanzo del Natoli), tali romanzi non rientrano nel genere del “romanzo storico” (perché, fra l’altro, mancanti degli intenti estetici e civili propri di esso), la loro appartenenza al filone del “romanzo popolare” non deve assolutamente originare un pregiudizio negativo che limiti la portata della loro validità letteraria.
Nel romanzo “La vecchia dell’aceto”, dunque, Giovanna Bonanno diventa una levatrice (da nubile Giovanna Fileccia) arrestata e processata «per pratiche contro l’onestà delle donne, contro la santa religione e il buon costume, di sortilegio e di fattucchieria» su denunzia di un nobile cavaliere (Gastone del Carretto) preoccupato che la donna (cui aveva fatto ricorso ben due volte) possa svelare due segreti: la nascita, da sua moglie Elisabetta e da don Filippo d’Altofonte (da lui ucciso) del bastardo Giovannino; e l’altra nascita, dalla sua tresca con Maria, moglie del suo ex cornificatore, dell’altra figlia bastarda Rosalia, anche essa abbandonata e consegnata alla Ruota. Nella complicata serie di situazioni, che condurrà i due figli illegittimi a ritrovarsi e a reinserirsi nei loro contesti familiari, si inserisce la figura della terribile “vecchia dell’aceto”, che ha più volte occasione di fornire il suo terribile veleno.
Accanto allo sforzo alquanto ambizioso di riproporre fedelmente la tradizione e la storia, c’è nel Natoli l’esigenza – tipica dei «cantastorie» – di arricchire la trama narrativa con innovazioni adatte a stimolare l’interesse dei lettori; e l’appassionante susseguirsi delle avventurose vicende coincide sempre con un’accuratissima ricostruzione del contesto palermitano della fine del ‘700.
Particolarmente efficace è la descrizione della vita condotta dalla megera, che si faceva chiamare “za’ Anna”: «Superstizioni e pratiche comuni […] confermavano questa fama nella za’ Anna. E ad alimentarla concorreva ancora la vita chiusa e solitaria che ella faceva, in quella stamberga nera, tetra, squallida, dove la sera, attraverso la porta socchiusa, spesso si vedeva lei dinanzi al fornello su cui bolliva una pentola, che pareva misteriosa, e il suo volto ai mobili riflessi della fiamma, ora più ora meno vivace, prendeva espressioni strane e paurose» (p. 81).
Al contesto “dark” del vicolo in cui abita la donna (dietro la chiesa del Noviziato nel quartiere del Capo) corrisponde l’efficacissimo ritratto fisico dell’avvelenatrice: «i suoi capelli erano divenuti più bianchi, più sparuti, ed ella li raccoglieva in un piccolo mazzocchio sul capo: il suo volto era più grinzoso, la bocca più sdentata, l’aspetto più orrido e ripugnante; soltanto gli occhi piccoli, neri, serbavano qualche cosa dell’antica vivacità e talvolta si accendevano di un’improvvisa fiamma, come quando da una brace coperta di cenere, per uno sterpo secco o una foglia, si sprigiona una vampata, che rapidamente lingueggia e si spegne” (id.).
A questa descrizione corrisponde l’immagine di copertina nell’edizione di Flaccovio, tratta dai “Diari palermitani” del Marchese di Villabianca (tomo XVI, anni 1789-1790); era un’incisione di Bartolomeo Pollini.