Nel XIV libro dell’Iliade il conflitto fra Greci e Troiani, da quando Achille si è ritirato, volge a favore di questi ultimi, tanto che Agamennone propone addirittura di fuggire da Troia. A questo punto Hera decide di “distrarre” dalla guerra Zeus, che aveva promesso a Tetide di accordare la vittoria ai Troiani per vendicare l’onta subìta dal figlio Achille; il XIV libro si intitola appunto “L’inganno a Zeus” (Διὸς ἀπάτη).
Hera anzitutto si lava, unge “il corpo desiderabile” (v. 170; trad. Calzecchi Onesti) con olio, pettina i capelli, intreccia le lunghe trecce, indossa una magnifica veste (opera della sua “stilista” Atena), aggiunge ornamenti preziosi, cinge la cintura e infine mette tre orecchini “a tre perle, grosse come una mora” (v. 183).
La scena ha un certo valore “didascalico” e sembra indirizzata proprio alle donne (a meno che si preferisca invece pensare che i dettagli forniti mirino a “corazzare” gli uomini dai pericoli della seduzione femminile). Non va neppure escluso un intento parodistico, giacché la “vestizione” della dea si contrappone implicitamente alle “vestizioni” degli eroi prima delle battaglie.
Subito dopo Hera si reca da Afrodite e le fa credere di voler fare da paciera fra Oceano e Teti; le chiede dunque “l’amore e il desiderio” (φιλότητα καὶ ἵμερον, vv. 198-199). La dea della bellezza accetta, anche perché è impossibile negare qualcosa alla sposa di Zeus; consegna dunque ad Hera la sua fascia ricamata (ἱμάς, v. 214), da cui promanano tutte le armi della seduzione femminile: “lì v’è l’amore (φιλότης), e il desiderio (ἵμερος) e l’incontro (ὀαριστύς), / la seduzione (πάρφασις), che ruba il senno anche ai saggi” (vv. 216-217). La terminologia usata qui diventerà in seguito ricorrente nella poesia erotica, ad es. nell’elegia e nella lirica monodica.
Il punto nodale del passo sta nell’esaltazione della devastante potenza dell’eros, cui non possono opporsi né gli uomini né gli dèi (vv. 198-199). Non meno rilevante appare il riconoscimento della potenzialità seduttiva delle donne, che appaiono astute, maliziose ed in grado, soprattutto, di ottenere quello che vogliono facendo un uso spregiudicato del loro fascino.
Hera raggiunge Zeus sul monte Ida, fingendo di dover partire per “i confini della fertile terra” (v. 301) allo scopo di ricomporre una lite tra Oceano e Tetide.
Il sommo dio, sedotto dall’aspetto ammaliante della consorte, la invita a rinviare la partenza e a far l’amore con lui: “Come la vide, così la brama avvolse il suo cuore prudente, / come allora che d’amore la prima volta s’unirono / entrando nel letto, dei cari parenti all’oscuro” (vv. 294-296). La storia d’amore di Zeus ed Hera perde ogni sacralità, ogni riferimento alla “ierogamia” (le “nozze sacre”) narrata nei miti cosmogonici: qui di Zeus ed Hera si ricorda maliziosamente il primo incontro segreto, avvenuto all’insaputa dei genitori.
Un altro elemento “comico” consiste nel paradossale elenco che Zeus fa alla moglie (!) delle più famose donne e dee con cui si era unito in passato, nell’intento di esaltare l’attuale smania erotica che lo pervade. L’elencazione delle “rivali” di Hera è apparsa indelicata già a diversi critici antichi; tuttavia l’epos doveva “informare” il pubblico, fornendogli notizie mitografiche e genealogiche; era questo che contava, mentre era poco rilevante, per i Greci dell’epoca, quello che potesse provare una donna (fosse pure una dea) di fronte a un discorso del genere…
Ottenuto (fin troppo facilmente) lo scopo che si era prefissato, Hera esibisce un finto imbarazzo dettato dal pudore: “Se tu ora brami abbandonarti all’amore / sulle cime dell’Ida, e tutto è in piena luce, / che sarà se qualcuno dei numi che vivono eterni / ci vede dormire e andando in mezzo agli dèi / lo dica a tutti?” (vv. 331-335). Propone allora di recarsi nel “talamo” nuziale, a loro costruito dal figlio Efesto.
La proposta della dea viene però respinta da Zeus: il “talamo” nel mondo greco è riservato ai momenti dell’amore “legittimo” (finalizzato esclusivamente alla generazione di figli); ma questo è un momento più “trasgressivo”, che merita un’adeguata location. Zeus allora copre con una “nube d’oro” (νέφος… / χρύσεον, vv. 343-344) la scena del sensuale incontro, trasformandola in un seducente locus amoenus: “Disse il figlio di Crono e afferrò tra le braccia la sposa: / e sotto di loro la terra divina produsse erba tenera, / e loto rugiadoso e croco e giacinto / morbido e folto, che della terra di sotto era schermo: / su questa si stesero, si coprirono di una nuvola / bella, d’oro: gocciava rugiada lucente” (vv. 346-351).
L’espediente della nuvola d’oro, mentre salvaguarda l’intimità dei due coniugi, assicura la dovuta “censura” sulla descrizione del loro incontro erotico e consente ad Hera di ingannare ulteriormente Zeus, impedendogli di osservare quanto sta avvenendo nella pianura di Troia.
Con gli espedienti irresistibili della seduzione Hera ottiene dunque piena vendetta sul coniuge, che nel I libro – in seguito all’accordo con Tetide – aveva aspramente minacciato la consorte ingiungendole di ubbidire ai suoi ordini (cfr. I 560-567). E mentre Zeus, appagato, giace “vinto dall’amore e dal sonno” (v. 353), il Sonno va da Posidone esortandolo ad aiutare, senza più alcun timore, i Greci. Certo, alla faccia della sensualissima preparazione di Hera, si ha l’impressione che la frenesia erotica del marito abbia reso l’incontro particolarmente fulmineo, con immediato successivo sprofondamento nel sonno del partner appagato (almeno lui…).
Nei poemi omerici la sola scena paragonabile a questa si trova nell’Odissea, allorché l’aedo Demodoco canta maliziosamente la storia degli amori segreti fra Ares ed Afrodite (cfr. VIII 266-366); ma anche l’Inno pseudo-omerico ad Afrodite si soffermerà morbosamente sugli amori fra Afrodite ed Anchise (cfr. vv. 155-167).
Secondo alcuni studiosi, storie piccanti di questo tipo potevano essere attinte da un repertorio di motivi folklorici sviluppatosi parallelamente all’epos; secondo altri invece (ad es. Janko) non andrebbe sottovalutato l’influsso delle tradizioni relative ai matrimoni sacri fra divinità (ierogamie), risalenti ad età micenea ed ancora celebrate in numerose feste nel mondo greco in età storica.
In ogni caso, il carattere “burlesco” di questo passo ha spiazzato molti critici, che lo hanno ritenuto estraneo al codice poetico del genere epico e lo hanno ritenuto un’interpolazione di epoca più tarda (anche se non successiva al VII sec. a.C., dato che esso appare noto al poeta Archiloco).
Tuttavia il carattere insolito del brano induce ad ammettere la presenza del “ghelòion” (γελοῖον, l’elemento buffo e ridicolo) nell’epos, come aveva intuito Aristotele, secondo cui Omero “fu anche il primo a suggerire le strutture della commedia, quando in maniera drammatica rappresentò il ridicolo” (τὸ γελοῖον δραματοποιήσας, “Poetica” 1448b 34-38).
Va detto comunque che la prevalenza di questo elemento burlesco è soltanto temporanea: lo dimostrerà il canto successivo, allorché Zeus, ridestatosi, vedrà i Troiani in rotta e getterà uno sguardo terribile su Hera (cfr. Il. XV 13), la quale rabbrividendo si scuserà ed incolperà Posidone dell’accaduto.