Oggi, 17 luglio 2024, nella ricorrenza del quinto anniversario della morte di Andrea Camilleri, vorrei ricordarlo parlando della figura del padre di Montalbano, integrando così le notizie da me riferite alcuni giorni fa in un articolo sulla madre del commissario. Mi sembra infatti interessante analizzare come il “padre creatore” delinei la figura del “padre reale” del personaggio; e si noterà che non è escluso qualche riferimento autobiografico da parte dell’autore.
Il piccolo Salvo Montalbano, rimasto orfano di madre, era stato allevato dal padre; ne “Il ladro di merendine” (1996) il commissario analizza, seduto sullo scoglio “a ripa di mare” a lui tanto caro, il rapporto con il genitore: “era stato, questo Montalbano non poteva negarlo, un genitore sollecito e affettuoso. Aveva fatto di tutto perché la perdita della madre gli pesasse il meno possibile. Le fortunatamente poche volte in cui, da adolescente, era caduto malato, suo padre non era andato in ufficio per non lasciarlo solo” (p. 204).
Ma quando il padre “si era portato in casa la nuova moglie”, di nome Giulia, Salvo “ne era rimasto irragionevolmente offiso” (id.); conseguentemente, “tra i due si era alzato un muro; di vetro, certo, ma sempre muro” (id.). Avevano quindi finito per diradare i loro incontri, limitati a una-due volte l’anno; in queste occasioni il padre di Montalbano, rimasto nuovamente vedovo e proprietario di un’azienda vinicola, portava al figlio qualche cassetta di vino e si tratteneva mezza giornata col figlio, per poi ripartire.
Sempre nel romanzo “Il ladro di merendine”, Montalbano apprende da una lettera del socio del padre, Arcangelo Prestifilippo, la triste notizia della grave malattia di suo padre (un tumore ai polmoni).
Questa lettera, sgrammaticatissima e tale da ricordare in più punti il buffo linguaggio dell’agente Catarella, svela anzitutto apertamente il profondo affetto che il padre nutriva per il figlio: «Dottore Montalbano, lei personalmente non mi conosci e io non conosci a lei com’è fatto. Mi chiamo Prestifilippo Arcangelo e sonno il socio di suo patre nell’azenda viniccola che ringrazziando il Signori va bene assai e ci frutta. Suo patre non parla mai di lei però o scoperto che nella sua casa teni tutti i giornali che scrivono di lei e macari si lui lo vede quarche volta comparire in televisione si mette a piangere ma cerca di non farlo vidire» (p. 201).
Viene poi descritta la malattia che ha colpito l’anziano genitore del commissario: «l’anno scorso, principiò a sentirsi male, ci mancava il fiato bastava che acchianasse una scala e ci firriava la testa. Non voleva andari dal medico, non c’era verso».
Visitato infine dal figlio dello stesso Prestifilippo, che era “medico bravo”, l’ammalato si era convinto a fare degli esami all’ospedale; la diagnosi era stata nefasta: «suo patre era stato attaccato da quel male tirribile ai polmoni».
La lettera descrive poi il triste calvario delle inutili cure: «E accussì è cominciato il tràsiri e il nèsciri di suo patre dallo spitali che gli facevano la cura che gli ha fatto perdiri tutti i capilli ma giovamento nenti di nenti».
Il padre aveva assolutamente proibito di informare il figlio di tutto ciò: «Lui mi ha spressamente proibbito di farle sapiri la cosa, ha detto che non voleva che lei si pigliasse pinzero» (p. 202). Ma quando il medico aveva rivelato a Prestifilippo che il malato era ormai “allo stremo”, il socio (“maligrado la proibbizione asoluta di suo patre”) aveva pensato di informare ugualmente il figlio. La lettera si conclude dunque con le necessarie indicazioni: «Suo patre è arricoveratto alla clinica Porticelli, il nummaro di tilifono è 341234. Tiene il tilifono in càmmara. Ma forse è melio si lei lo viene a trovari di persona facento finta di non sapìri nenti della sua malatia. Il mio numero di tilifono lei ce l’ha diggià, è quelo dell’azenda viniccola dove travaglio tutto il santo giorno. La saluto e mi dispiace. Prestifilippo Arcangelo».
Il commissario resta sconvolto: “un leggero tremore alle mani lo fece faticare a rimettere la lettera dentro la busta” (p. 202). Subito dopo si alza a fatica e lascia l’ufficio; esce all’aperto, si compra un cartoccio di “càlia e simenza” e inizia la sua abituale passeggiata sul molo, fino allo “scoglio grosso” vicino al faro.
Qui l’angoscia lo assale: «sentiva una specie di ondata acchianargli da qualche parte del corpo verso il petto e da lì salire ancora verso la gola, formando un groppo che l’assufficava, gli faceva mancare il fiato. Provava il bisogno, la necessità, di piangere, ma non gli veniva» (p. 203).
La malattia del padre e la sua possibile perdita costituiscono una svolta decisiva e drammatica, che Montalbano si rifiuta di accettare; solo quando gli torna in mente un verso di Camillo Sbàrbaro (“Padre che muori tutti i giorni un poco”), gli esce dalla gola un grido, animalesco e liberatorio al tempo stesso: “il grido gli niscì, ma più che un grido un alto lamento d’animale ferito al quale, immediate, fecero seguito le lacrime inarrestabili e liberatorie” (p. 203).
La malattia del padre è per Montalbano l’occasione di riflettere sul loro rapporto, reso difficile dal carattere introverso di entrambi: “Forse c’era stata tra loro due una quasi totale mancanza di comunicazione, non riuscivano mai a trovare le parole giuste per esprimere vicendevolmente i loro sentimenti” (p. 204).
Entrambi dunque, per il loro carattere chiuso, non erano mai riusciti a confessarsi apertamente il loro affetto: «Suo padre arrivava di solito con qualche cassetta di vini prodotti dalla sua azienda, si tratteneva mezza giornata e ripartiva. Montalbano trovava il vino ottimo e orgogliosamente l’offriva agli amici dicendo che l’aveva prodotto suo padre. Ma lui, a suo padre, l’aveva detto mai che il vino era ottimo? Scavò nella memoria: mai. Così come suo padre raccoglieva i giornali che parlavano di lui o gli venivano le lacrime quando lo vedeva in televisione. Ma per la riuscita di qualche inchiesta con lui, di persona, non si era mai congratulato» (p. 204).
Qui Camilleri riesce ottimamente ad evidenziare la situazione di stallo creatasi fra due persone che si stimavano e si volevano bene; ne emerge un messaggio subliminale: l’amore (in particolare quello fra un genitore e un figlio) non si deve sottintendere, non deve essere chiuso dentro, ma deve essere esternato, comunicato all’altro, condiviso. Se qualche volta sentiamo di dover dire (padre al figlio o figlio al padre) una parola buona, diciamola e basta, senza lasciarci condizionare dai tortuosi labirinti della nostra mente.
Montalbano però decide di non andare a trovare il genitore agonizzante: “Vedendolo avrebbe certamente capito la gravità del suo male, sarebbe stato peggio. […] Inoltre a Montalbano i moribondi facevano spavento e orrore: non era certo di poter sopportare l’orrore e lo spavento di veder morire suo padre, sarebbe scappato via, al limite del collasso” (p. 205).
La difficile situazione psicologica di Montalbano è descritta da Camilleri con potente drammaticità; e non è ipotesi azzardata pensare che l’autore rivivesse qui la morte del proprio padre, dovuta alla stessa malattia.
Sarà poi un altro personaggio a svelare apertamente questo stato d’animo del commissario; si tratta del mio omonimo prof. Pintacuda, che compare nella parte finale de “Il ladro di merendine” ed è modellato su un vecchio professore di Filosofia di Camilleri (di nome Carlo Greca) e su Leonardo Sciascia (cfr. la dichiarazione di Camilleri in “Vi racconto Montalbano – Interviste”, Datanews, Roma 2006, p. 127).
Il prof. Pintacuda analizza acutamente lo stato d’animo del commissario: «Che suo padre muoia è un fatto reale, ma lei si rifiuta di avallarlo constatandolo di persona. Fa come i bambini che, chiudendo gli occhi, pensano d’avere annullato il mondo… […] Quando si deciderà a crescere, Montalbano?» (pp. 233-234).
In seguito a questo colloquio, nelle ultime pagine del romanzo Montalbano vince le sue ultime resistenze e si reca alla clinica ove è ricoverato il padre.
Troppo tardi: un tale professor Brancato gli comunica che il padre “è deceduto serenamente” due ore prima.
La risposta del commissario è un paradossale “Grazie”, che lascia il medico “un poco strammato”. Ma – aggiunge Camilleri a conclusione del libro – “non stava ringraziando lui”.
P.S.: Nella fiction “Il giovane Montalbano”, diretta dal regista Gianluca Maria Tavarelli, che aveva per protagonista un Salvo Montalbano in giovane età, veniva ottimamente evidenziato il tormentato rapporto fra il commissario (qui interpretato dall’attore tarantino Michele Riondino) e suo padre (l’attore livornese Adriano Chiaramida, particolarmente adatto a incarnare un certo tipo di uomini “di una volta” del Sud Italia per il suo volto severo e austero).
Infine, per ulteriori notizie sull’argomento, rimando al mio volume “Camilleriade”, scritto con Vito Lo Scrudato e Bernardo Puleio, ed. Diogene Multimedia, Bologna 2023, pp. 131-135.
Una analisi puntuale e filologicamente corretta ma soprattutto psicologicamente penetrante. Oggi sulla edizione nazionale di Repubblica Francesco Piccolo parla dell’importanza di leggere non solo attraverso Montalbano l’intera Opera di Camilleri e su Montalbano dice esattamente le cose che qui ha riferito il professore Pintacuda.
Riporta un piccolo passo dell’articolo
” E il commissario Montalbano è un buon Virgilio che accompagna l’intero arco della sua vita, visto che, «come ha scoperto mia moglie, Montalbano è al sessanta per cento mio padre. C’è la sua ironia, il senso pratico, la voglia di accomodare, di perseguire la verità senza trasformarsi in rappresentanti dell’Inquisizione. E certi suoi silenzi, un certo coraggio che io non ho»
Camilleri sa affrontare con sagacia e grande conoscenza dell’animo umano, certe dinamiche di silenzio, pudore, di non detto che sono tipiche dei rapporti padri-figli soprattutto nel sud.
Per noi gente del sud, e dell’isola in particolare, viene difficile esprimere in parole i propri sentimenti, si preferisce tenere dentro e reprimere ogni slancio e manifestazione d’affetto.
Si rimanda a dopo, e poi è troppo tardi.