Nella Lettera 53 a Lucilio il filosofo Seneca racconta un suo breve ma avventuroso viaggio. Trovandosi a Napoli e dovendo recarsi a Pozzuoli (a circa 15 km di distanza) aveva preferito fare il viaggio per mare. Il tempo non era ideale: “Il cielo, in verità, era coperto di nuvoloni, di quelli che spesso si risolvono in pioggia o in vento; ma io pensai che le poche miglia fra la tua Napoli e Pozzuoli si potessero superare anche con un tempo dubbio o minaccioso” (53, 1; uso qui la traduzione di Giuseppe Monti).
Per arrivare prima, la rotta viene indirizzata su Nisida, piccola isola posta all’estrema propaggine della collina di Posillipo. Ma a metà strada le condizioni meteorologiche peggiorano rapidamente: “Cessò la calma del mare, che mi aveva tratto in inganno: non era ancora scoppiata una tempesta, ma le onde si agitavano sempre di più” (53, 2).
Preoccupato, Seneca chiede al gubernator (il timoniere) della nave di essere sbarcato in qualche punto della costa; ma l’uomo risponde che “quelle coste erano frastagliate e di difficile approdo, e che, col tempo cattivo, niente temeva quanto la vicinanza della terra” (id.).
Sembra incredibile: ma a quei tempi (siamo fra il 62 e il 65 d.C.) anche un breve viaggio per mare poteva portare i passeggeri a rischiare la vita.
Seneca è ormai in preda al mal di mare: “ormai avevo un tale mal di mare, che non pensavo più al pericolo: mi tormentava la nausea, ma non riuscivo a vomitare, e la bile riversatasi nel mio stomaco non voleva venir fuori” (53, 3). La nausea (in latino il termine è identico) è tale, che il filosofo chiede al capitano, volente o nolente (“vellet nollet”), di dirigersi verso la costa.
Ma quando ormai la nave è prossima al litorale e iniziano le ardue manovre di approdo, Seneca, insofferente e sofferente al tempo stesso, decide di bruciare i tempi: “non aspettai che fosse eseguita nessuna delle manovre descritte da Virgilio… ma, secondo la mia vecchia abitudine di amatore dell’acqua fredda, mi getto in mare, avvolto in un mantello, come si addice a chi fa bagni freddi” (id.).
Il filosofo dunque, si libera degli abiti e, rimasto con il semplice folto panno che si usava nelle terme (“gausapatus”), si getta in mare e nuota verso la riva, mostrando indubbie doti di provetto nuotatore, nonché proficua esperienza da “psychrolūta”, frequentatore dei frigidaria delle terme, dove si facevano i bagni nell’acqua fredda.
Arrivato a riva, Seneca va incontro ad altre peripezie: “T’immagini tutto quello che ho potuto soffrire, mentre, arrampicandomi per gli scogli, cercavo di trovarmi un passaggio? Allora ho capito che i naviganti hanno ragione di temere la terra. Sono incredibili le fatiche che ho dovuto sostenere, mentre non riuscivo a sostenere me stesso. Devi sapere che Ulisse non affrontò tante peripezie nella navigazione perché era perseguitato da Nettuno: egli soffriva di mal di mare. Proprio come lui, dovunque dovrò andare per mare, vi giungerò dopo vent’anni” (53, 4).
Come si vede, a pericolo scampato, Seneca scherza sulla sua disavventura e si paragona al naufrago per eccellenza, Ulisse, modificando ironicamente il mito: l’eroe greco non aveva avuto mille traversie in mare per colpa di Nettuno, ma per colpa del mal di mare (“nausiator erat”).
Nel prosieguo della lettera, il discorso prende – come di consueto in questa opera filosofica – una piega più riflessiva: “Quando mi fui rimesso dal mal di stomaco, che, come sai, non passa appena si è lasciato il mare, e quando ebbi ristorato il corpo ungendolo, cominciai a pensare come siamo indotti a dimenticare presto i nostri mali, anche fisici, sebbene essi ci avvertano incessantemente della loro presenza; e come dimentichiamo ancor prima i mali spirituali, che tanto più ci rimangono nascosti, quanto più sono grandi” (53, 5). Ne deriva un’ampia dissertazione, che culmina in un elogio della filosofia, che “non è cosa accessoria; è la cosa principale, è una regina, fa sentire la sua presenza e comanda”. Solo la filosofia è porto sicuro e rifugio contro i colpi del destino.
Come andò il viaggio di ritorno? Ne abbiamo notizia grazie alla Lettera 57, che costituisce una sorta di “sequel” della precedente.
Dovendo tornare a Napoli da Baia (luogo mondano di lusso e divertimenti, sul golfo di Pozzuoli), Seneca, con il labile pretesto di un imminente temporale, rifiuta di rifare il viaggio per mare. Il percorso attraverso la terraferma non è però meno disagevole, prima per il fango (“ho incontrato tanto fango lungo tutto il percorso che mi è sembrato di aver ancora attraversato il mare”, 57, 1) e poi per la polvere, incontrata durante l’attraversamento della crypta Neapolitana”.
Questa “crypta” era una galleria lunga circa 700 metri, scavata nel tufo della collina di Posillipo, tra Mergellina e Fuorigrotta, a Napoli. La tradizione medievale immaginò che questa galleria fosse stata realizzata da Virgilio in una sola notte, con il ricorso alla sua arte magica; in realtà però, come testimonia Strabone (Geografia, V, 4, 5), la grotta era nata per scopi militari, quando, nel periodo delle guerre civili (I sec. a.C.), la zona flegrea assunse grande importanza strategica e si avvertì la necessità di una linea comunicazione diretta fra Napoli e Pozzuoli; la realizzazione fu affidata a un ingegnere campano, Lucio Cocceio Aucto, per volere di Marco Vipsanio Agrippa.
Cessate le necessità strategico-militari, al tempo di Seneca la galleria era utilizzata come infrastruttura civile di collegamento. E tuttavia, come testimonia qui il filosofo, era stretta, buia, opprimente e soprattutto molto polverosa. Il suo attraversamento dunque finì per infastidire Seneca non meno del mancato naufragio dell’andata; ma fu, “più che un turbamento, un’impressione”, cessata all’uscita dal tunnel: “appena rividi la luce tornò in me spontaneamente l’allegria”. Non manca la solita riflessione successiva: “Si ha paura, più che degli effetti, delle circostanze che li producono” (57, 6).
Che Seneca amasse le immersioni nell’acqua fredda è confermato dalla lettera 83, nella quale il filosofo descrive a Lucilio una sua tipica giornata (lo fa non per vantarsi o per mettersi in mostra, ma per un motivo molto più serio: “Quello che ci rende veramente cattivi è che nessuno esamina la propria vita”, 83, 2).
Anzitutto il filosofo ha fatto un po’ di esercizio fisico (exercitatio corpŏris) in compagnia di un giovanissimo schiavetto di nome Fario (che è pure spiritoso: infatti, senza troppa soggezione, gli ha detto: “Noi stiamo attraversando la stessa crisi d’età, perché a tutti e due cadono i denti”). Poi si è immerso nell’acqua fredda: ma ha dovuto constatare che, alla sua età ormai avanzata (aveva più di sessant’anni), l’acqua che un tempo gli sarebbe parsa tiepida ora per lui è fredda: “Io, che mi gettavo tanto volentieri nell’acqua gelida e il primo gennaio andavo a dare il saluto ai canali del Circo; che iniziavo l’anno non solo leggendo, scrivendo e conversando con qualcuno, ma anche facendo un bagno nella sorgente detta Vergine, io prima ho trasferito le tende sulle rive del Tevere, poi in questa vasca. Qui mi bagno, quando mi sento in forze e tutto va bene, dopo aver lasciato intiepidire l’acqua al sole”; e aggiunge amaramente: “presto, per me, non sarà più tempo per i bagni” (83, 5).
L’immagine del grande filosofo qui ricorda addirittura (“si parva licet componere magnis”) quella di Mister Okay nella Roma moderna: costui, al secolo l’italo-belga Rick De Sonay, per quasi quarant’anni dopo la seconda guerra mondiale si tuffò nel Tevere il primo dell’anno (oggi la sua eredità è stata raccolta da Maurizio Palmulli).
Analogamente, Seneca confessa che, “kalendis Ianuariis”, iniziava l’anno nuovo con un bagno tonificante nell’acqua gelida.
Viene citato qui l’acquedotto Vergine (Aqua Virgo), l’unico degli undici principali acquedotti di Roma antica rimasto in funzione sino ai nostri giorni e che alimenta le monumentali fontane della città barocca, Fontana di Trevi inclusa.
P.S.: L’abilità nel nuoto fu sempre celebrata dagli antichi Romani: basti ricordare il leggendario aneddoto sulla giovane Clelia, che attraversò il Tevere a nuoto insieme alle altre fanciulle sfuggite con lei al re Porsenna, o la notizia relativa a Cesare, che sfuggì a un attacco degli Alessandrini tuffandosi in mare ed allontanandosi a nuoto, prima sott’acqua e poi in superficie. Non mancavano però pagine drammatiche su questo stesso tema (basti pensare alla storia di Ero e Leandro, narrata da Ovidio, per la quale rimando a un altro contributo presente in questo blog).
Immersioni in acque gelide… io a Menfi il 15 di agosto!!! ☺e non sapevo del “nausiator erat”.. adoro queste chicche di latino ….. ovviamente nelle modalità meravigliose e accattivanti da Lei sempre proposte!