L’ho divorato.
Come avviene con i libri che ti prendono davvero, con i libri ben scritti che quasi ad ogni pagina ti lasciano il segno, con i libri che al piacere della lettura ti aggiungono un seme proficuo per l’intelletto e per il cuore.
Tutto questo è “Volver – Ritorno per il commissario Ricciardi”, di Maurizio De Giovanni, edito da Einaudi e da pochi giorni in libreria.
Il romanzo è il terzo della cosiddetta “trilogia del tango”, iniziata con Caminito – Un aprile del commissario Ricciardi (2023), proseguita con Soledad – Un dicembre del commissario Ricciardi (2023) e conclusa con questo inno al “ritorno”.
La vicenda è ambientata nel rovente luglio del 1940: la guerra è stata appena dichiarata e il commissario Ricciardi, preoccupato per la piccola figlia Marta e per i suoceri, inseriti in una lista nera dalle autorità fasciste per le loro origini ebraiche, ha lasciato il suo lavoro a Napoli ed “è tornato” a Fortino, nel Cilento, il paese dove è nato. Qui torna ad essere il barone Luigi Alfredo di Malomonte: qui tutti lo chiamano “eccellenza” e quasi ogni cosa e persona gli appartiene.
Ma questo “ritorno” ai luoghi dell’infanzia diventa per Ricciardi un viaggio nello spazio e nel tempo, lo pone di fronte ai fantasmi del passato lontano, riapre ferite mai rimarginate. Una fra tutte: il ricordo del giorno lontano in cui, quando aveva solo cinque anni, giocando in un cortile del podere di famiglia con un pezzo di legno “che poteva sembrare una sciabola”, era entrato in un vigneto; ad un tratto aveva “visto” un uomo accoltellato mortalmente: «Il bambino lo guardò meglio: aveva la camicia intrisa di sangue, e dal lato sinistro spuntava il manico di un coltello da giardiniere. Abbandonata la sciabola, il bambino scappò gridando» (M. De Giovanni, “L’omicidio Carosino”, 2005). Così era entrato nella sua vita “il Fatto”, cioè la terribile capacità di “vedere” e sentire i morti: «Il Fatto. Ricciardi si era abituato a chiamare così la connotazione principale della sua vita, quello che lo rendeva così profondamente diverso dagli altri. Il Fatto. Questo Fatto che ho, da quando mi succede il Fatto, mi ha aiutato il Fatto» (ibid.).
Ecco perché da quei luoghi Ricciardi era scappato: lì era cominciato tutto, lì aveva compreso la sua dannazione; e anche se possedeva una ricca fortuna in immobili e fondi agricoli, aveva scelto di studiare Legge (proprio per cercare di fare giustizia delle troppe morti assurde che “vedeva”) e con la governante Rosa Vaglio si era trasferito a Napoli, prima per gli studi universitari e poi, dopo la laurea a pieni voti, per il suo lavoro di commissario nella Regia questura di Napoli.
E a Napoli aveva conosciuto Enrica Colombo, dolce dirimpettaia, brava, onesta e seria “figlia di famiglia”: ed era nato fra i due giovani un amore castissimo, fatto per molto tempo di sguardi e di silenzi, perché Ricciardi temeva di non poter e non dover condividere con nessuno il suo destino di dolore.
Infine, però, l’amore aveva trionfato, perché l’amore «quando arriva, arriva» (come dice, nel nuovo romanzo, un personaggio-chiave della storia; cfr. p. 129). Luigi ed Enrica si erano sposati e avevano vissuto un unico straordinario brevissimo momento di immensa felicità; ma nel dare alla luce la loro bambina, Enrica era morta di parto. E solo grazie alla piccola Marta il dolore incommensurabile del commissario era stato tollerato e superato.
Adesso però erano arrivati tempi cupi. Le crescenti violenze di un regime intollerante erano culminate nelle leggi razziali e la figlia di Ricciardi, nipote di ebrei, era stata inserita nella lista nera; poi era giunta la guerra. Da qui il ritorno, più obbligato che desiderato, nella terra natale: e a Fortino si erano trasferiti Ricciardi, la piccola Marta, i due nonni Giulio e Maria Colombo e la giovane “tata” Nelide, tanto orrenda nell’aspetto («le lunghe braccia penzoloni sui fianchi, la testa priva di collo incassata nelle spalle da scaricatore, i fianchi larghi quanto il torace da cui si irradiavano gambe grosse come tronchi», pp. 114-115) quanto fedele ed efficientissima nella gestione dell’economia familiare.
Una notte, però, avviene qualcosa di straordinario (ma che cosa è ordinario, nella vita del commissario?): «A un certo punto della notte, Ricciardi sognò. Non accadeva spesso, o almeno non ricordava mai che sogni avesse fatto. Aveva sempre pensato che fosse perché la sua vita era già una specie di sogno a occhi aperti. Quantomeno lo era una parte di essa, quella popolata dagli incubi che gli si presentavano a ogni angolo di strada, o in tranquilli appartamenti che tutto sembravano fuorché luoghi di morte» (p. 46).
Nel sogno ricompare il morto ammazzato visto tanti anni prima, con “un coltellaccio che gli spuntava dal fianco, e il sangue che lordava la camicia, e la pozzanghera scura al suolo” (p. 47); e quell’infelice ripete una frase disperata, rivolta a chissà chi: «Non l’ho nemmeno toccata la tua donna» (p. 47), poi fissa Ricciardi e gli dice: «Ti sembra giusto? Tutti quei morti ammazzati, e io ancora senza giustizia» (p. 48).
No. Non può sembrare giusto tutto questo a un uomo che ha la cristallina onestà di Ricciardi. Ecco perché l’indomani decide di indagare, a distanza di oltre trent’anni, su quel delitto lontano; ci sono infatti molte domande che esigono risposta: perché quell’uomo era morto là, in un podere dei Malomonte? chi era? chi e perché lo aveva ucciso?
Il “cold case” impegna Ricciardi per alcuni giorni, mentre parallelamente seguiamo le vicende di altri personaggi ben noti dai precedenti romanzi.
C’è il brigadiere Maione, triste per le dimissioni di Ricciardi e preoccupato per i figli che rischiano di finire al fronte.
C’è il “femminiello” Bambinella, ancora una volta prezioso per le sue informazioni segrete (Maione gli dice: «Bambine’, tieni una rete di informatori tu, che se l’Ovra ti assumesse potrebbe pure licenziare a tutti quanti», p. 221).
C’è l’unico amico del commissario, il dottor Modo, ormai in pensione, sempre radicalmente avverso al regime fascista, lucido e spietato nelle sue analisi sociopolitiche («Il nemico adesso erano le altre nazioni, non più la miseria, la malattia, la povertà, l’invidia di classe. Alla fine ci erano riusciti a illudere la popolazione che bastava convincersi di essere i più forti e con un destino di gloria per risuscitare la speranza», p. 16), pronto anche a passare dal pensiero all’azione a rischio della vita.
C’è, anche lei di ritorno, Livia Lucani, la bellissima cantante invano innamorata da sempre di Ricciardi, che dopo alcuni anni di esilio a Buenos Aires, decide di tornare a Napoli nella folle speranza di ritrovarvi il suo sogno d’amore, il tutto sulle ali di una struggente canzone argentina («Y aunque no quise el regreso / siempre se vuelve al primer amor / la vieja calle donde le cobijo / tuya es su vida, tuyo es su querer / bajo el burlón mirar de las estrellas / que con indiferencia hoy me ven volver», “E anche se non volevo tornare / si torna sempre al primo amore / la vecchia strada dove l’eco diceva / tua è la sua vita, tuo è il suo amore / sotto lo sguardo beffardo delle stelle / che con indifferenza oggi mi vedono ritornare”, p. 1).
C’è, persino, un fruttivendolo, Tanino ‘o Sarracino, follemente innamorato della orrida Nilde, che per ritrovarla non esita a piombare nel Cilento.
L’indagine di Ricciardi, intanto, prosegue: il suo fiuto infallibile lo conduce a scoprire una verità che, inaspettatamente, lo riguarda assai da vicino, portando la sua intera esistenza a una svolta decisiva (lo dice, alla fine del libro, a un personaggio ritrovato inaspettatamente: «una volta messe insieme le due metà, la nostra vita non sarà mai più uguale a com’era», p. 237). E comunque, come aggiunge l’ex commissario, «Non è mai tardi per fare giustizia» (p. 195).
Un aiuto fondamentale nella soluzione del caso arriva a Ricciardi dalla piccola figlia Marta, anche lei in possesso di un (diverso) dono soprannaturale, che ha appreso tutto “conversando” con Filomena, un’attempata donna sordomuta: «Nelide le aveva dato una coperta lisa, che la bambina stendeva con cura accanto all’anziana per poi sedersi lì, calma e serena, in silenzio» (p. 81; ed è questa l’immagine della copertina del libro, tratta da una bella foto di Giulia Natalia Comito).
Alla fine, tutte le vicende e tutti i personaggi convergono su Fortino, mentre al lettore resta il dubbio palesato nell’ultima pagina: «Chissà se si può davvero tornare. […] O se quello che ci illudiamo essere un ritorno è soltanto una triste, patetica illusione. L’ultima illusione» (p. 253).
Due ultime osservazioni.
1) Uno dei punti di forza del romanzo è, come sempre, la capacità eccelsa di De Giovanni di cogliere, con brevi essenziali note, l’anima della sua Napoli. Anche se “Volver” si svolge in gran parte, come si è detto, a Fortino nel Cilento, alcune parti descrivono la situazione nella metropoli partenopea nei primi mesi della seconda guerra mondiale.
E forse l’analisi più tristemente realistica viene, ancora una volta, dal “femminiello” Bambinella, che rassicura così il brigadiere Maione preoccupato per il conflitto: «Eh, vabbe’, brigadie’! Forse il sole non spunta, domani mattina? E la luna stanotte non si fa vedere? Saranno tempi duri, e magari qualcuno farà una brutta fine. Ma le cose come cominciano così finiscono. Bisogna solo aspettare. E cercare di sopravvivere, per arrivare dall’altra parte della tempesta. Come facciamo sempre, e come sempre abbiamo fatto» (pp. 222-223).
2) Le pagine in corsivo, come sempre intercalate alla narrazione principale, presentano i pensieri di alcuni personaggi (qui uno in particolare) e sono scritte su un registro “alto”, lirico e struggente. Sono queste le parti più ardue ma più affascinanti della scrittura di De Giovanni, che valgono comunque a dimostrare (per chi ancora nutrisse qualche dubbio in proposito) che la cosiddetta narrativa “gialla” costituisce, soprattutto nell’ultimo quarantennio, uno dei filoni essenziali della produzione letteraria italiana e che il “caso Camilleri”, in tale ottica, non è unico e insolito, ma rientra in una tendenza sempre più evidente e importante.
“Ho paura dell’incontro
con il passato che ancora una volta
si confronta con la mia vita.
Ho paura delle notti
che, popolate di ricordi,
incatenato i miei sogni.
Ma il viaggiatore che fugge
prima o poi interrompe il suo cammino
e benché l’oblio, che tutto distrugge,
abbia ucciso la mia vecchia illusione
tengo nascosta un’umile speranza
che è tutta la fortuna del mio cuore“
(pagg. 26-27)