Il film “Napoli – New York” di Gabriele Salvatores, che ho visto lunedì scorso al cinema, è veramente «una favola che intrattiene e commuove», come l’ha definita Eliana Napoli nella sua recensione sul “Giornale di Sicilia”.
Come scrive la giornalista, «Gabriele Salvatores salì alla ribalta internazionale con “Mediterraneo”, Oscar come Miglior film straniero nel 1991, ma anche David di Donatello. E oggi porta al cinema un film straordinario, il cui soggetto, chiuso in un cassetto da decenni, è di Tullio Pinelli e Federico Fellini. Salvatores ne ha ricavato una favola che intrattiene e commuove, romanzo di formazione dei due giovanissimi protagonisti. Sono Celestina (Dea Lanzaro) e Carmine (Antonio Guerra), che s’imbarcano, da clandestini, su una nave che da una Napoli devastata dalla guerra, dove non hanno più né genitori né parenti, li porterà nella Grande Mela per cercare Agnese, la sorella maggiore della bambina. Partita per amore, da tempo non dà più notizie. Scoperti durante il viaggio, rischiano di finire a mare. A salvarli è il commissario di bordo Domenico Garofalo (Pierfrancesco Favino), napoletano anche lui, che sarà, d’allora in poi, il loro protettore. Ma i due ragazzi sono coraggiosi, abili e furbi, durante il viaggio si danno da fare, e conquistano il cuore anche di altri passeggeri. Potranno così sbarcare direttamente a New York, senza subire il micidiale controllo di Ellis Island. La loro ricerca è ardua, non dà subito risultati, e i due bambini ne vedranno di tutti i colori. Ma scopriranno infine che Agnese è nei guai. Processata con l’accusa di assassinio, rischia la pena di morte. Se la caverà anche con l’aiuto dei tanti cittadini neri, contro i quali, come contro gli italiani, prospera il razzismo. Finale aperto ma consolatorio. Garofalo/Favino non ha figli, vorrebbe adottare i due ragazzini. Ma Carmine è uno spirito libero, la famiglia vorrebbe costruirsela da sé. La decisione sarà affidata alle carte da gioco. Al netto di alcune lungaggini ed eccessi di colore, il film di Salvatores, grazie anche agli straordinari interpreti, funziona bene. Si iscrive tra i suoi film migliori degli ultimi vent’anni».
A questa recensione, sintetica ma pienamente condivisibile, vorrei aggiungere qualche altra osservazione.
Anzitutto, Salvatores strizza palesemente l’occhio al cinema neorealista del dopoguerra, quando ad es. la piccola Celestina, arrivata a New York e sperduta nella grande metropoli, riesce ad entrare in un cinema in cui viene proiettato “Paisà” di Roberto Rossellini (1946); nelle immagini del film riconosce luoghi e persone realmente esistenti, gridando ad alta voce la propria emozione (e ottenendo così di essere cacciata fuori…). Il regista evidenzia in questo modo il realismo assoluto del capolavoro di Rossellini (che era uscito negli Stati Uniti nel marzo 1948, arrivando a incassare quasi un milione e mezzo di dollari).
Al neorealismo Salvatores si ispira in molte scene, sia che raffiguri le macerie e lo sfacelo della Napoli postbellica, sia che ritragga una sfavillante Little Italy, sia ancora che legga la vicenda attraverso gli occhi dei due piccoli protagonisti: a questa prospettiva induce anche l’uso della macchina da presa ad altezza di bambino, quando ad esempio si vedono le eleganti scarpe delle “ladies” americane che sgambettano per le luminose strade di New York, fra le insegne che decantano il “sogno americano” (in stridente contrasto con il contesto degradato delle varie minoranze etniche).
La tendenza realistica emerge anche nella vivida parlata partenopea, nella presentazione di temi drammatici come l’emigrazione, il razzismo, la violenza sulle donne, nella riflessione sulle laceranti contraddizioni del Nuovo Mondo. In particolare è ispirata a una vicenda reale la storia di Agnese (interpretata da Anna Lucia Pierro) che, accusata per l’omicidio dell’uomo che le aveva falsamente promesso di sposarla, davanti ai giudici difende dignitosamente il suo gesto come l’unico a lei possibile nelle sue condizioni di donna povera e straniera. La vicenda riecheggia il caso reale di Maria Barbella, condannata alla sedia elettrica a New York per aver ucciso il suo amante ma poi salvata da una campagna contro la xenofobia, cui seguì un secondo processo al termine del quale l’imputata fu assolta.
E tuttavia l’anima del film è lirica e non realistica; come scrive Paolo Modugno su “Vanity Fair”, «Visivamente, “Napoli – New York” è un sogno. La fotografia alterna il realismo delle macerie napoletane a un lirismo che si accende nelle sequenze americane. E la regia di Salvatores, precisa e al tempo stesso delicata, si prende il tempo di accarezzare i dettagli, trasformando ogni “frame” in un piccolo pezzo di poesia. Questa non è solo una “bella storia” per Natale. È un film che parla al cuore senza scordarsi della testa, un film che si rivolge agli spettatori italiani ma che ha tutte le carte in regola per conquistare un pubblico globale. Salvatores ha fatto un film popolare, nel miglior senso del termine, che mescola emozioni, ironia e sogno in un racconto universale. Una fiaba in cui è impossibile non credere».
Una menzione speciale tocca al bravissimo Pierfrancesco Favino, qui chiamato a recitare in italo-americano e in napoletano, con la sua consueta abilità nel riproporre qualunque dialetto e con la sua interpretazione sensibile e attenta di un uomo che dietro la scorza un po’ ruvida nasconde le sue amare delusioni (la mancanza di figli anzitutto).
Certo, nel film alcune scene ricordano (fin troppo) modelli precedenti: tanto per citarne una, la scena dell’arrivo della nave in America, con l’immancabile avvistamento della Statua della Libertà da parte degli emigrati italiani, richiama l’analoga bellissima scena del “Padrino – Parte II” di Francis Ford Coppola; qui però la Statua della Libertà viene scambiata da Celestina per la Madonna di Pompei ed emerge a stento da una fitta foschia, come a voler svelare simbolicamente la sua ambiguità e l’illusorietà di questa accoglienza in un Paese straniero.
In nome di questo messaggio, si può forse sorvolare su un’evidente incongruenza storica a mio parere presente nel film, che documenta erroneamente una massiccia emigrazione in America dall’Italia nel secondo dopoguerra. Tale flusso migratorio, invece, dati alla mano, appartiene a un’altra epoca, quella compresa fra la fine dell’Ottocento e l’inizio del XX secolo, con una media di 130.000 italiani arrivati ad Ellis Island fra il 1896 e il 1905. Viceversa nel periodo in cui è ambientato il film di Salvatores (1949), le difficoltà economiche dei Paesi europei e la perdurante chiusura delle frontiere statunitensi orientarono le migrazioni dall’Italia verso altre destinazioni: il nord Italia, alcune aree della Francia, della Germania e della Svizzera; quanto all’emigrazione transoceanica, fu ben più limitata e rivolta semmai verso certi Paesi sudamericani (come l’Argentina e il Venezuela), verso il Canada e anche verso l’Australia. In altre parole, la “fiaba” di Salvatores ritarda di diversi decenni un fenomeno in realtà nettamente precedente; era molto più preciso, storicamente, il quadro prospettato dal “Padrino” di Coppola.
Ma non si deve essere troppo pignoli su questo aspetto, perché il richiamo alla realtà, come si è detto, è comunque fortissimo nel film; lo si avverte anche in alcune battute sferzanti, messe in bocca a Celestina (interpretata dalla bravissima Dea Lanzaro, nata nel 2014 a Saviano in provincia di Napoli). Ad esempio, quando lei e Carmine sono catturati come clandestini e accusati dal capitano della nave di aver commesso un crimine, la piccola senza esitare ribatte: «Anche morire di fame lo è», opponendo alla presunta giustizia degli adulti la disarmante verità di bambini diventati grandi troppo in fretta. Ed è sempre Celestina, nella scena del processo alla sorella, che proclama davanti ai giudici (e davanti a tutti noi) che l’unico straniero che non viene mai accettato è quello povero.
Da qui deriva un’ultima osservazione. Gli epiteti rivolti nel film ai piccoli protagonisti e ai nostri connazionali emigrati in America ci appaiono crudeli e inaccettabili: infatti sono definiti “sporchi”, ladri, africani, imbroglioni, ecc. Eppure esattamente queste ingiurie (insieme con altre ancora peggiori) vengono oggi rivolte ai migranti che approdano nel nostro Paese, tutti accomunati indistintamente da certe autorità politiche in questa valutazione xenofoba e ostile. La cosa dovrebbe far riflettere, ammesso che ancora esista, a certi livelli politici, qualcuno che sappia riflettere.