“Dormire come un ghiro”: questa espressione deriva dal fatto che il ghiro, piccolo roditore, molto attivo di notte, trascorre le sue giornate sonnecchiando e passa poi circa sei mesi all’anno in totale letargo (dall’autunno alla primavera inoltrata).
Questo simpatico animaletto dormiglione predilige gli ambienti boschivi e vive in collina o nella bassa montagna, a quote tra i 600 ed i 1500 m., specialmente nel sottobosco, ove spesso usa come tana le cavità di vecchi alberi.
Non tutti sanno, forse, che nell’antica Roma il ghiro (in latino “glis”) era considerato un cibo appetitoso, tanto che veniva catturato e fatto ingrassare in uno speciale contenitore di terracotta detto “glirarium”.
Il consumo alimentare dei ghiri è attestato da Petronio nel suo “Satyricon”, allorché viene descritta la pantagruelica cena offerta dal liberto Trimalchione: come antipasto, in un vassoio sormontato da un asinello in metallo, sono servite olive bianche e nere; inoltre, “v’erano anche saldati dei ponticelli che sostenevano ghiri conditi con miele e papavero” (“ponticuli etiam ferruminati sustinebant glires melle ac papavere sparsos”, XXXI 10, trad. Canali).
Il ghiro era dunque considerato un cibo raffinato e ricercato, riservato ai ceti più abbienti. Ne fa menzione, in precedenza, Varrone Reatino (“De re rustica” III 15), che cita a sua volta i “gliraria” chiamandoli però “dolia” (“barili”): in questi contenitori (alti circa mezzo metro e dal diametro di circa 30 cm) i piccoli roditori venivano fatti ingrassare per poi finire inevitabilmente sulle tavole dei ricchi; c’erano delle piccole scanalature ai lati per rifornire d’aria gli “ospiti”, mentre un foro più grande serviva per introdurre il loro cibo (ghiande e castagne, ma anche miele e frutta secca); un coperchio evitava la fuga dei piccoli animali, costretti così a vivere al buio, peggio di Edmond Dantés nel castello d’If e senza il conforto di un abate Faria che promettesse loro un tesoro inestimabile.
La notizia di Varrone è confermata dal ritrovamento, tra le rovine di Pompei, di alcuni “gliraria”, alcuni dei quali conservati oggi all’Antiquarium di Boscoreale e al Museo Archeologico di Napoli. L’uso dei “gliraria” è confermato anche da Plinio il Vecchio (“Naturalis Historia”, VIII, 211, 224), che li chiama “vivaria in doliis” e ne attribuisce l’invenzione a un tale Quinto Fulvio Lippino, un patrizio che nel I secolo a. C. aveva anche creato delle riserve di caccia e ideato tecniche per allevare le lumache commestibili.
Una ricetta a base di ghiri è presente nel manuale gastronomico attribuito a Marco Gavio Apicio (“De re coquinaria”), scritto forse nel I sec. d.C. ma ampliato nei secoli successivi. Nell’VIII libro, dedicato ai “quadrupedi”, l’ultima ricetta è la seguente: “GHIRI – Riempi i ghiri con salsicce di maiale e con altro membro dello stesso ghiro; con pepe, pinoli, laser, salsa. Cucili e mettili in forno in una casseruola o cuocili in un tegame” (VIII 9, trad. Vesco). Il “laser” (chiamato “sìlphyon” dagli antichi Greci) era un ricercatissimo succo resinoso proveniente dalla Cirenaica; quanto alla “salsa”, in latino chiamata “liquamen”, era scura (da qui la poco rassicurante derivazione etimologica italiana, “liquame”) e si otteneva gettando in un tegame di coccio interiora di pesce con pezzi dello stesso e pesciolini.
Marziale (40-104 d. C.) nei suoi “Epigrammi” (III 58) mette a confronto la vita sfarzosa delle ville suburbane di Roma con le semplici case di campagna di Baia in Campania, soffermandosi a narrare la consuetudine dei contadini di offrire ai visitatori, insieme ad altri prodotti rurali della zona, dei ghiri “sonnolenti” (“somniculosos… glires”).
Spesso i ghiri erano cucinati con il miele: se ne ricorda ancora Alexandre Dumas nel suo romanzo “Il conte di Montecristo” (nel capitolo “Mezzo di liberare un giardiniere dai ghiri che gli mangiano le pesche”): il misterioso conte, rivolto a un telegrafista appassionato di giardinaggio, definisce i ghiri “cattivi vicini”, almeno “per noi che non li mangiamo cotti nel miele, come facevano i Romani. […] Io lessi ciò in Petronio” (ed. Oscar Mondadori, Milano 1984, p. 499).
Il consumo alimentare dei ghiri non cessò con l’antichità; si continuò a mangiarli in Francia, ove il ghiro ripieno diventò una ghiotta specialità; in seguito, però, il roditore fu declassato socialmente, finendo nelle meno pretenziose tavole del popolo, ad es. nel ragù di maccheroni in Calabria, nelle aree interne di Campania, Irpinia e Sannio (ove si mangiava “alla pizzaiola”, con aglio, prezzemolo e pomodoro) e in Brianza (dove lo si arrostiva).
Nella prima metà del XIX secolo il ghiro era ancora mangiato da alcune nobili famiglie del Lazio, come attesta in una lettera del 1831 l’archeologo tedesco Winckelmann: “(il ghiro) si mangia tuttora, ma soltanto nelle tavole dei grandi: poiché non è comune, ed io so che la casa Colonna ne manda in regalo”.
Oggi in Italia la caccia al ghiro è (giustamente) vietata, per cui ogni suo consumo alimentare è illegale (ma possiamo stare certi che, se fosse ancora un piatto ambito da qualche palato danaroso, la legge sarebbe, come sempre, sistematicamente aggirata e violata). Chi ne avesse un desiderio impellente, dovrebbe andare in Croazia e Slovenia (e magari restare là…).
Fermiamoci qui: oggi a pranzo non mangeremo sicuramente ghiri con il miele; limitiamoci semmai, essendo domenica, a dormire come ghiri; magari come ghiri di oggidì, sicuri (si spera) di non finire più sulla tavola di qualche anacronistico “gourmet”.