“Otello” al Teatro Massimo fra contemporaneità e tradizione

Al Teatro Massimo di Palermo è in scena l’“Otello” di Giuseppe Verdi, con la regia di Mario Martone e la direzione orchestrale di Jader Bignamini; le scene sono di Margherita Palli, i costumi di Ortensia De Francesco e le luci di Pasquale Mari.

Il regista Martone ha al suo attivo film notevoli come “L’amore molesto” (1995) o “Il giovane favoloso” (2014), oltre a importanti regie teatrali (fra cui mi piace ricordare l’allestimento dei “Persiani” di Eschilo a Siracusa nel 1990) e di opere liriche; questo suo “Otello” aveva inaugurato la stagione 2021/22 nella sua città, Napoli.

Mario Martone

L’allestimento risulta sorprendente e spiazzante, perché la vicenda è ambientata da Martone in un avamposto nel deserto, ove si trovano un accampamento militare e un ospedale da campo con soldati in missione umanitaria, in una sorta di “desert storm” che ricorda diversi conflitti degli ultimi decenni (in Siria, in Iraq, in Afghanistan, ecc.).

Come scrive Simonetta Trovato, «sotto il cielo stellato, il deserto pare animato di luce innocente, Otello e le sue truppe hanno montato tende militari, un ospedale, due torrette di avvistamento. I profughi sbarcano da un gommone, guardato a vista dagli scafisti, li ritroveremo sulle barelle mentre sparuti medici cercano di aiutarli. Potrebbe essere Gaza, l’Iraq, o forse l’Ucraina, poco importa, i soldati in mimetica si muovono guardinghi, neanche i rom sboccati riescono a coinvolgerli. Mario Martone ha voluto Otello un generale, Iago il suo luogotenente, Desdemona una soldatessa, Cassio un sergente: il dramma della gelosia qui diventa feroce, ma la dolce protagonista di Verdi non ci sta, si difende, tira fuori un’arma; finirà male, come sempre, come tutti i femminicidi, in ogni luogo e tempo» (“Giornale di Sicilia”, 25.01.25).

Martone ha scelto di proporre un Otello che non è più un “moro”, bensì semplicemente un uomo che programma l’assassinio della sua donna a causa di una morbosa gelosia e di un accecante furore distruttivo e autodistruttivo; per il regista, il dramma non è riconducibile al colore della pelle del condottiero, poiché a non aver colore è la violenza sulle donne, che è una costante delle società patriarcali basate sull’oppressione del genere femminile. Tuttavia, la scelta “politicamente corretta” di Martone fa spesso a pugni con il libretto di Boito, mantenuto fedelmente (fin troppo, come vedremo più avanti), nel quale Jago, rivolto a Roderigo, non lesina frecciate razziste su Otello: «Suvvia, fa senno, aspetta / l’opra del tempo. A Desdemona bella, / che nel segreto de’ tuoi sogni adori, / presto in uggia verranno i foschi baci / di quel selvaggio dalle gonfie labbra»].

Quanto a Desdemona, il regista ne ha fatto una soldatessa che opera nel settore medico-umanitario della spedizione; per questo l’ha voluta volitiva, reattiva, non sottomessa e non rassegnata alla violenza, ben diversa quindi rispetto alla dimensione tradizionale del personaggio, di solito presentato come una severa matrona o, viceversa, come un’ingenua fanciulla. In questo contesto, il famigerato “fazzoletto” (che scatena la gelosia di Otello) è un foulard rosso da campo di battaglia.


Una scena dal I atto

Tema centrale e di scottante attualità diventa il femminicidio; come scrive Mario Martone nelle note di regia, «Il tempo che passa ci rivela che nessun progresso ferma la spinta brutale di troppi uomini nell’aggredire le donne che dicono di amare fino ad ammazzarle. E questo è un tema, e che tema, dell’”Otello” di Verdi».

L’uccisione di Desdemona nell’ultimo atto si consuma in un ambiente domestico dimesso, formato da due stanzette divise da una paratia, circondato dalla casbah. La donna, riversa in tuta mimetica su un lettino, canta malinconicamente la “Canzone del Salice” («Salce! Salce! Salce! / Cantiamo! Cantiamo! il Salce funebre / sarà la mia ghirlanda»), mentre Emilia guarda distrattamente la televisione (qualcuno, visto l’orario, ha temuto di vedere in diretta i pacchi di De Martino…).

In questa scena decisiva Desdemona, grazie al suo addestramento militare, comprende subito le intenzioni omicide di Otello e gli punta contro un revolver; poi però se lo fa togliere di mano (fin troppo facilmente) e soccombe alla violenza del marito. Il suo cadavere viene poi portato in barella fuori scena dall’efficientissimo personale militare, per cui il successivo suicidio autopunitivo di Otello avviene in assoluta solitudine e il suo “bacio estremo” («Or morendo… nell’ombra… / in cui mi giacio… / Un bacio… un bacio ancora… ah!… un altro bacio») va a un’assenza, a un miraggio lontano. Tale è, sembra dire il regista, la sorte dei colpevoli di femminicidio, destinati a restare soli con i fantasmi delle loro menti malate.

Nella vicenda è fondamentale il ruolo del perfido Jago, soprattutto nella terribile aria “Credo in un dio crudel”, qui cantata dal baritono davanti a un’enorme muraglia simile a un sipario “tagliafuoco” e che nell’ultimo verso (“la morte è il nulla”) culmina nell’apertura di una bassa porta attraverso cui si intravede un nero assoluto. Nella prospettiva di Martone, Otello e Jago «sono condannati a essere uomini spaventosamente soli, accecati dai loro deliri di possesso e di superiorità; i loro terribili programmi o sviamenti, morte d’Otello compresa, avvengono al di qua di una parete-cortina metallica, nuda, brutta, un muro che cala – rumorosamente – a separarli dal mondo già problematico per confinarli in una realtà sostanzialmente solipsistica, il cui attraversamento sul limite del suo serrarsi in basso o attraverso una porticina stretta è restata una delle soluzioni spaziali più forti di questa regia» (A. Mastropietro, “Giornale della Musica”, 28.01.25).

I ruoli di Otello, Desdemona e Jago sono ricoperti, rispettivamente, da Yusif Eyvazov, Barno Ismatullaeva e Nicola Alaimo; ieri però nella replica del Turno Scuole erano in scena Arsen Soghomonyan, Maria Motolygina e Devid Cecconi (tutti di livello dignitoso ma non esaltante).

Va ricordato peraltro che l’“Otello” (che risale al 1887) è opera musicalmente ardua, priva di arie e recitativi, basata su un declamato melodico insistito, aspro e sofferente, su un flusso musicale ed emozionale continuo che in qualche modo sembra un avvicinamento allo stile di Wagner (basato però sul geniale uso del Leitmotiv, che qui si limita al tema del “bacio”). Come scrive Claudio Toscani, «la distanza che separa “Otello” dalle opere che a Verdi avevano assicurato la massima popolarità (su tutte, la “trilogia” di “Rigoletto”, “Il trovatore” e “La traviata”) è palese: al di là della perfetta padronanza dei meccanismi drammatici – che emerge soprattutto nelle grandi scene di massa con azioni contrapposte – la nuova opera è lontana dalle forme tradizionali del melodramma italiano. Alcuni, proprio per questi motivi, rimproverarono all’epoca Verdi per un presunto affievolimento della vena melodica, altri deplorarono il prevaricante commento orchestrale; la critica e la parte colta del pubblico, invece, reagirono positivamente a “Otello”, poiché vi colsero, con il distacco dallo stile corrente nell’opera italiana del tempo, nuovi esiti artistici» (https://www.flaminioonline.it/Guide/Verdi/Verdi-Otello80.html).

La particolare impostazione di questo melodramma verdiano è stata colta dalla direzione orchestrale di Jader Bignamini, musicista dalla lunga esperienza operistica; la sua padronanza della partitura è apparsa di buon livello, dalla tempesta iniziale (mirabile per intensità del fraseggio) fino al complicatissimo concertato del terzo atto e allo struggente “Salice” del IV atto. Si sarebbe voluta forse maggior forza espressiva in alcuni passi più drammatici, dove però anche gli interpreti a volte sono apparsi più compassati di quanto il contesto richiedesse.

Ieri sera non sono mancati gli applausi (soprattutto da parte di un attentissimo ed educatissimo pubblico di giovani studenti del turno scuola); c’era pure, inevitabilmente, qualche commento perplesso di fronte a certe scelte registiche, ma ben vengano perplessità e polemiche, pur di rivitalizzare il dibattito sull’opera lirica, che – questo è certo – non si può più riproporre come si faceva un tempo, in una sorta di sterile venerazione del passato in quanto tale.

In tal senso un elemento che, a mio parere, “rema contro” le velleità di rinnovamento e di attualizzazione del regista, è – nel caso dell’“Otello” – il libretto di Arrigo Boito, che qualcuno definisce “sublime” ma in realtà è contorto, involuto, obsoleto, di una letterarietà così “alta” da diventare quasi ridicola in troppi passi.

Basterà qualche esempio:

1) Nell’iniziale tempesta, Montano (predecessore di Otello nel governo dell’isola di Cipro) scorge il veliero del condottiero che si avvicina alla terra e “or s’affonda or s’inciela”.

2) Cassio, rivolto a Jago che vuol farlo bere e ubriacare, invoca: «Cessa. Già m’arde il cervello / per un nappo vuotato. / […] Questa del pampino / verace manna / di vaghe annugola / nebbie il pensier»

3) Lo stesso Cassio, litigando con Roderigo (“gentiluomo veneziano” qui trasformato in una sorta di ufficiale dei “navy seals”), così impreca contro Montano che vorrebbe separarli: «Ti spacco il cerèbro se qui t’interponi».

4) Nella scena III del I atto il duetto d’amore fra Otello e Desdemona inizia con queste parole del Moro: «Già nella notte densa / s’estingue ogni clamor. / Già il mio cor fremebondo / s’ammansa in quest’amplesso e si rinsensa».

5) All’inizio del II atto Cassio chiede a Jago dove potrà parlare (anzi “favellare”!) con Desdemona per ottenere che lei perori la sua causa presso Otello; Jago risponde: «è suo costume / girsene a meriggiar fra quelle fronde / colla consorte mia. Quivi l’aspetta. / Or t’è aperta la via di salvazione. / Vanne».

6) La celebre aria “Credo in un dio crudel”, intonata da Jago, costituisce il massimo sforzo poetico di Boito, ma alterna versi efficaci a scelte lessicali fin troppo auliche: «Credo in un Dio crudel che m’ha creato / simile a sé e che nell’ira io nomo. / Dalla viltà d’un germe o d’un atòmo / vile son nato. / […] / E credo l’uom gioco d’iniqua sorte / dal germe della culla / al verme dell’avel. / Vien dopo tanta irrision la Morte. / E poi? E poi? La Morte è il Nulla; / è vecchia fola il Ciel».

7) Sempre Jago così descrive a Otello il sentimento della gelosia: «Temete, signor, la gelosia! / È un’idra fosca, livida, cieca, col suo veleno / sé stessa attosca, vivida piaga le squarcia il seno».

8) Otello replica così alle parole con cui Jago gli ha descritto la tresca (da lui inventata) fra Cassio e Desdemona: «Jago, ho il cor di gelo. / Lungi da me le pietose larve! / Tutto il mio vano amor escalo al cielo. / Guardami, ei sparve. / Nelle sue spire d’angue / l’idra m’avvince! / Ah! Sangue, sangue, sangue!».

9) Quando Emilia impreca contro Otello che ha ucciso la moglie, questi risponde: «Fu di Cassio la druda. A Jago il chiedi»; la donna replica: «Stolto!! E tu il credesti?».

Forse i registi “ultramoderni”, che vogliono attualizzare l’opera lirica mutandone i connotati scenici, l’ambientazione e in parte il messaggio, dovrebbero parallelamente lavorare sui libretti, per non creare una distonia lancinante fra allestimenti “ultra-contemporanei” e testi aulici e paludati sino al paradosso.

Di Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico "Andrea D'Oria" e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all'Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E' sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.

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