Esattamente 14 anni fa, il 30 luglio 2011, moriva Pietro Maggiore, poeta dialettale, mio cugino (aveva sposato mia cugina Giovanna) e grande uomo, una delle persone che hanno influito maggiormente su di me.

Ripropongo oggi un suo ricordo, per rendergli omaggio e per consentire a chi non lo conosce di comprenderne il valore umano e culturale.
Se avesse potuto scegliere, Pietro avrebbe scelto di morire esattamente come morì, nel mare di Fondachello, a pochi chilometri dalla sua Bagheria, in una splendida giornata estiva, mentre nuotava in mezzo all’azzurro (“Azzurru” aveva voluto intitolare l’unica raccolta di poesie da lui pubblicata).

Ormai anziano (aveva 80 anni), camminava a fatica e col bastone; ma voleva a tutti i costi, da maggio a novembre, andare al mare per ritornare, in acqua, giovane e leggero come una volta: “Amu lu celu / azzurru e annigghiatu; / amu lu ventu sirenu e annirvatu; / amu la terra in paci e in guerra; / ma cchiù di tuttu iu amu lu mari: / lu mari ‘i Funnacheddu / ca è beddu pi natura / macari quannu è vunciu e s’arrabbìa” [“Amo il cielo, / azzurro e annuvolato; / amo il vento sereno e adirato; amo la terra in pace ed in guerra; / ma più di tutto io amo il mare: / il mare di Fondachello, / che è bello per natura / pure quando è gonfio e si arrabbia”, da “Funnacheddu Funnacheddu”, poesia inedita, 20/9/1999].
La notizia della morte di Pietro Maggiore fu riportata l’indomani dal “Giornale di Sicilia” e corredata da poche righe, che ricordavano frettolosamente la sua laurea in giurisprudenza, la passione per l’agricoltura, l’amore per la poesia dialettale, la prima poesia (“Ciuri amurusi”) del 1954 e l’unica suddetta raccolta di versi (23 poesie del 1982-84), la sua collaborazione con il grande poeta Ignazio Buttitta (con cui aveva fatto molti “recital” in Sicilia e in altre regioni). Questi brevi cenni incompleti dimenticavano i premi letterari vinti da Pietro (soprattutto il prestigioso premio Girgenti, nel 1991), le sue composizioni anche musicali, le sue opere teatrali e, soprattutto, la sua straordinaria figura umana.

Un paio di articoli commemorativi gli furono dedicati da Giuseppe Fumia, ma invano si attese poi una cerimonia, un ricordo, un messaggio dell’amministrazione comunale. E dire che Ignazio Buttitta aveva visto in lui un vero poeta, come diceva nella lirica “Io e Petru” che apre “Azzurru”: “La Puisia è paraddisu ‘n terra / e Petru l’havi chistu paraddisu” (“La poesia è paradiso in terra / e Pietro ce l’ha, questo paradiso”).

A integrazione doverosa di queste scarne notizie ufficiali aggiungo alcune note che riporto qui di seguito.
Pietro amava profondamente la Sicilia, di cui conosceva ogni angolo, ogni paese, ogni contrada, ogni sfumatura dialettale, ogni frammento storico ed antropologico. Aveva letto molti libri che parlavano della storia dell’isola, ma soprattutto l’aveva girata palmo a palmo. E quando andava nei più “arroccati” paesi, sapeva muoversi con un suo “navigatore satellitare” mentale, indicandone chiese, strade, monumenti, meglio di una guida del Touring.
Conosceva il dialetto siciliano nelle sue sfumature più segrete: non solo il “baarioto” stretto, ma tutte le varianti che un termine assume nell’intera isola, compresi i termini obsoleti, da lui riesumati e riscoperti. Conseguentemente, nei suoi versi si incontrano spesso termini ostici, che richiedono una spiegazione o una nota: ecco dunque l’alba che “sbracchiannu s’arricampa” (cioè che “arriva sbadigliando”), le onde del mare che si inseguono “comu putri chi vannu ‘a campìa” (“come puledri che vanno al pascolo”), la canicola “quagghiata” (stagnante) che “acchianca l’aria” (“inchioda l’aria”), l’emigrante che vaga “tampasiànnu a la stranìa” (“girovagando in terra straniera”), la poesia “cumpanàggiu d’a vita” (“companatico della vita), il sudore del lavoratore che “sbùmmica ‘nt’a carni appiccicusu” (“che esala dalla pelle appiccicoso”), la gente terrorizzata dalla violenza mafiosa che la induce a strisciare come “trasèntuli di fàngura” (“lombrichi nella melma”), il cuore che, sotto la spinta dell’emozione, “tuppulìa a tum-ta” (“tambureggia”); e via dicendo…
I suoi itinerari siculi erano stati favoriti dalla sua abilità di provetto guidatore; all’inizio degli anni ‘50 aveva comprato un’Opel Rekord 1600 a tre marce, con cui percorse migliaia di chilometri in lungo e in largo per l’isola (e non solo). Nella guida era instancabile e brillava soprattutto nei percorsi tormentati, contorti ed irrazionali della Sicilia di quei tempi; ricordava con orgoglio le sue veloci “acchianate” in macchina sui tornanti del tratto Cefalù-Gibilmanna.
Era, fisicamente, grande e grosso; da giovane, quando andavano di moda i palestrati eroi dei filmacci peplum (Ercole, Maciste, Sansone), sfoggiava al mare i suoi muscoli da culturista: un metro e ottanta di corporatura possente, gli occhi azzurri, una voce calda e pastosa (che ricordava quella di Gualtiero De Angelis, il famoso doppiatore di Cary Grant e James Stewart), una selva di capelli (beato lui…) prima nerissimi e poi di un bianco quasi albino, che negli ultimi anni gli conferiva una solennità ieratica.
C’è una foto dell’agosto del 1953 che allego qui: in campagna il giovane Pietro, possente e prestante, regge sulle spalle un gruppo di cinque amici che si mantiene in un equilibrio surreale sopra di lui (circa 350 kg). Me la faceva vedere sempre, sorridendo: lì c’era il ricordo della sua giovinezza atletica. Senza questa energia anche fisica, non si può capire Pietro, che aveva anche praticato vari sport a livello agonistico (lancio del peso, salto in alto, lotta greco-romana, nuoto).

Spesso le sue poesie erano accompagnate da musiche sue, create “a orecchio”; ma chiamava spesso in soccorso mio padre, insigne musicologo, che in un lampo materializzava le note di Pietro in un professionistico spartito musicale: “’Nca cchiù bedda mi pari accussì” (“Più bella mi pare, così”), diceva allora Pietro soddisfatto.
Anche io musicai alcuni testi di Pietro; agli inizi degli anni ‘80 alcune nostre canzoni (versi suoi, musica mia) parteciparono al Festival della Canzone Siciliana, organizzato da Pippo Baudo presso l’emittente televisiva catanese Antenna Sicilia. Vincemmo il Festival nel 1982 con “Tarantella di ‘na vota”, eseguita da due bambini di Priolo e pubblicata poi in un LP a 33 giri e in audiocassetta. Nel precedente festival eravamo arrivati in finale con “Tampasiannu a la stranìa” (lett. “girovagando in terra straniera”), un dolente canto sull’emigrazione. Un’altra nostra canzone, “Celu e mari”, fu eseguita al festival da un cantante lirico del Teatro Massimo, Aldo Fiore. Allego una foto del 1981 in cui io e Pietro esibiamo orgogliosi gli spartiti delle nostre canzoni.

Non sempre Pietro trascriveva e conservava le sue poesie; molte, scritte a mano nella sua chiarissima grafia, finivano disperse in imponderabili “pizzini” fra le mille carte del suo studio. Aveva una sorta di indifferenza superiore, per cui non gli interessava che i suoi versi fossero noti e non aveva mai voluto brigare per pubblicarli; recitava le sue poesie a parenti, amici e conoscenti, appagato della circoscritta “audience” che lo seguiva. Non smise mai di vedere con distacco ironico la sua produzione, tanto da realizzare, una volta, un lapidario e intraducibile componimento in cui volle scherzosamente “superare” in brevità l’Ungaretti di “Mi illumino d’immenso”: «M’arricriàvu».

Era altruista, disponibile, generoso, deciso e sicuro di sé, cocciuto a volte, logorroico di una piacevolissima logorrea (non ci si stancava mai di ascoltarlo). Non era mai “pessimista”: il suo carattere, la sua intensa e sincera fede religiosa aliena da ogni bigottismo, la sua indomabile energia lo inducevano sempre a vedere il bicchiere “mezzo pieno”, ad andare sempre avanti, a non cullarsi mai nel disfattismo.
Era sinceramente democratico: amava la gente umile, semplice e laboriosa (come era stato suo padre, “travagghiaturi ‘i razza finu all’ossu”). L’incipit di una delle sue più belle poesie inedite, “Livàmunni livàmunni” (1964) descrive la giornata lavorativa del contadino, fin dal risveglio al canto del gallo, con l’alba che arriva “sbadigliando” e la famigliola che si ridesta: «Livàmunni, livàmunni, ch’è ura!» / canta lu jaddu. / E l’arba sbracchiannu s’arricampa / e sulu è l’antu. / Ruspìgghiati nicuzza, chianu-chianu; / ca to’ fratuzzu dormi, ‘nnuccinteddu. / E, mentri ca si pappa u jiriteddu, / veni ‘cu mia e cogghi i spighi in terra” [«Alziamoci, alziamoci, che è ora!» / canta il gallo. / E l’alba sbadigliando arriva, / ed il luogo di lavoro è ancora solitario. / Svegliati, piccolina, piano piano, / perché tuo fratello dorme, piccolo innocente. / E mentre si succhia il ditino, / tu vieni con me e raccogli le spighe da terra].
Era legatissimo ai giovani: sempre giovane nell’animo, amava stare più con loro che con i suoi coetanei. Non si poneva mai, però, come maestro; dialogava, si confrontava, ascoltava i ragazzi e si faceva ascoltare, li invitava sempre alla ricerca dell’onestà e della giustizia, al disprezzo di ogni opportunismo, ad un “carpe diem” non privo del corrispondente oraziano invito alla saggezza: “O picciutteddi schetti chi v’aviti a maritari, / circati picciuttanza nun circati li dinari; / li soldi vannu e vennu comu fussino pinzeri, / la picciuttanza inveci quannu va nun veni cchiù” [“Ragazzi celibi che dovete sposarvi, / cercate giovinezza, non cercate denari; / i soldi vanno e vengono, come fossero pensieri; / la giovinezza invece quando va non torna più”].
Il ricordo di Pietro resta indelebile nella moglie, nei suoi figli Maria e Pierantonio, nella giovane nipote Selene, negli altri familiari e in tantissime altre persone che l’hanno incondizionatamente stimato e apprezzato.
Io in questo blog gli ho dedicato un’intera sezione, in cui ho pubblicato diverse sue poesie inedite ed altre testimonianze sulla sua attività culturale. Era il minimo che potessi fare per ricordarlo; e penso che sarebbe contento, oggi, di rileggere con me i suoi versi, commentandoli ancora, discutendoci su, rivedendoli, ripensandoli, rivivendoli. Nel frattempo, la sua mancanza si nota sempre più in un contesto storico e culturale in cui figure della sua levatura morale e intellettuale si contano ormai sulla punta delle dita.
MARIO PINTACUDA
Palermo, 30 luglio 2025

