La prima volta che l’ho incontrato non è stata certo ieri sera, 1° dicembre 2025, quando ha assunto le sembianze di un palestrato turco di nome Can (che coerentemente recita da “Can”).
Non è stato neanche il giorno dell’Epifania 1976, quando ero sul Treno del Sole di ritorno da Bagheria a Genova e quindi mi persi la prima puntata dello sceneggiato di Sergio Sollima con Kabir Bedi.
No, io Sandokan l’ho conosciuto quando avevo 14 anni, nel marzo 1968, leggendo “Le tigri di Mompracem” di Emilio Salgàri (con l’accento sulla penultima sillaba) nella nuova edizione della serie “Tigri e corsari” dei Fratelli Fabbri (allego la copertina del libro, che ho qui davanti a me a distanza di 57 anni).

Il romanzo risaliva al 1883-1884, quando era comparso a puntate sul giornale “La Nuova Arena” di Verona col titolo “La Tigre della Malesia”; fu poi pubblicato nella versione definitiva nel 1900 col titolo attuale.
Il libro inizia in uno scenario tempestoso: «La notte del 20 dicembre 1849 un uragano violentissimo imperversava sopra Mompracem, isola selvaggia, di fama sinistra, covo di formidabili pirati, situata nel mare della Malesia, a poche centinaia di miglia dalle coste occidentali del Borneo. Nel cielo, spinte da un vento fortissimo, correvano mescolandosi confusamente, nere masse di vapori, che di quando in quando lasciavano cadere sulle cupe foreste dell’isola furiosi acquazzoni; sul mare s’urtavano disordinatamente e s’infrangevano furiosamente enormi ondate, confondendo i loro muggiti con gli scoppi ora brevi e secchi e ora interminabili delle folgori».
Mompracem, il Borneo, i formidabili pirati, le enormi ondate: un clima di tregenda, nel quale – come in uno zoom cinematografico – l’inquadratura va restringendosi su “due finestre illuminate”: «Né dalle capanne allineate in fondo alla baia dell’isola, né sulle fortificazioni che le difendevano, né sulle numerose navi ancorate al di là delle scogliere si scorgeva alcun lume; chi però, venendo da oriente, avesse guardato in alto, avrebbe scorto sulla cima di un’altissima rupe tagliata a picco sul mare due punti luminosi, due finestre illuminate».
Il narratore precorre la nostra domanda: «Chi mai vegliava a quell’ora nell’isola dei sanguinari pirati?». Ma lo zoom non è terminato, l’inquadratura va ancora avvicinandosi: e viene descritta una “vasta e solida capanna”: «In un labirinto di trincee sfondate, di terrapieni cadenti, di stecconati divelti, di gabbioni sventrati, presso i quali si scorgevano ancora armi infrante, si innalzava una vasta e solida capanna adorna sulla cima di una grande bandiera rossa, che aveva al centro una testa di tigre».
L’autore ci conduce poi all’interno della stanza illuminata, ce la descrive minuziosamente: «Una stanza di quell’abitazione era illuminata; le pareti erano coperte di pesanti tessuti rossi, di velluti e di broccati di gran pregio, ma qua e là sgualciti, strappati e macchiati, e il pavimento scompariva sotto tappeti di Persia, sfolgoranti d’oro, ma anch’essi laceri e imbrattati. In un angolo c’era un divano turco con le frange qua e là strappate; in un altro un armonium di ebano con la tastiera sfregiata e intorno, in una confusione indescrivibile, erano sparsi tappeti arrotolati, splendide vesti, quadri, lampade rovesciate, bottiglie, bicchieri interi o infranti e poi carabine indiane arabescate, tromboni di Spagna, sciabole, scimitarre, pugnali, pistole».
A questo punto, dopo aver descritto l’ambiente in cui vive il suo personaggio, il narratore finalmente ce lo presenta: «In quella stanza così stranamente arredata, un uomo sedeva su una poltrona zoppicante: era di statura alta, slanciata, dalla muscolatura robusta, dai lineamenti energici, fieri, e d’una bellezza strana. Lunghi capelli gli cadevano sugli omeri: una barba nerissima gli incorniciava il volto leggermente abbronzato. Aveva la fronte ampia, ombreggiata da due folte sopracciglia, una bocca piccola che mostrava dei denti acuminati come quelli delle fiere e scintillanti come perle, due occhi nerissimi, d’un fulgore che affascinava».
Ecco Sandokan, come lo immaginò Salgàri e come, più o meno fedelmente, è stato tante volte riprodotto sullo schermo: alto, forte, affascinante; ma il dettaglio che si perde sempre nelle rielaborazioni cinematografiche o televisive è quella ossimorica “bellezza strana”, anomala, quasi animalesca (come denunciano quei “denti acuminati come quelli delle fiere”). Questo non è un uomo normale: è la Tigre della Malesia.
Dopo il ritratto fisico, ecco quello psicologico; l’eroe è preoccupato, ansioso: «Stava, da alcuni minuti, con lo sguardo fisso sulla lampada, con le mani chiuse nervosamente attorno alla ricca scimitarra che gli pendeva da una larga fascia di seta rossa, stretta alla vita su una casacca di velluto azzurro e oro. Uno scroscio formidabile, che scosse la grande capanna fino alle fondamenta, lo strappò bruscamente da quella immobilità. Si gettò indietro i lunghi capelli, si assicurò sul capo il turbante adorno di uno splendido diamante, grosso quanto una noce, e si alzò di scatto, gettando all’intorno uno sguardo nel quale si leggeva un non so che di tetro e di minaccioso. – È mezzanotte – mormorò. – Mezzanotte, e non è ancora tornato!».
Alla sua prima apparizione, Sandokan pare uno di quei padri che oggigiorno attendono ansiosamente che una figlia o un figlio torni a casa la sera sfuggendo ai pericoli della “movida” contemporanea: qualcuno “non è ancora tornato” e l’eroe ha lo sguardo “tetro” e “minaccioso”.
Deve ingannare l’attesa: allora prima vuota lentamente «un bicchiere pieno di un liquido color ambra», poi esce nella tempesta e si ferma «sull’orlo della gran rupe, alla cui base ruggiva furiosamente il mare». Lì rimane per alcuni minuti: «con le braccia incrociate, fermo come la rupe che lo reggeva, aspirando con piacere i soffi della tempesta e scrutando il mare sconvolto».
Niente. Nessuno. L’attesa continua.
Sandokan rientra nella capanna e si ferma dinanzi all’armonium; qui scopriamo che sa anche suonare: «Fece scorrere le dita sulla tastiera, traendo dei suoni rapidissimi, strani, selvaggi che si spensero fra gli scrosci della pioggia e i fischi del vento».
A un tratto la situazione si sblocca: l’uomo smette di suonare, sta in ascolto, «curvo, con gli orecchi tesi», poi esce di nuovo, di scatto, «spingendosi fin sull’orlo della rupe». Ed ecco, finalmente, che la situazione si sblocca: «Al rapido chiarore di un lampo vide un piccolo legno, con le vele quasi ammainate, entrare nella baia e confondersi in mezzo ai navigli ancorati. L’uomo accostò alle labbra un fischietto d’oro e mandò tre note stridenti; un fischio acuto rispose un momento dopo. – È lui! – mormorò con viva emozione – Era tempo!».
L’uomo che era atteso con tanta ansia arriva «cinque minuti dopo», «avvolto in un ampio mantello grondante acqua». I due uomini si abbracciano: «-Yanez!- esclamò l’uomo dal turbante, abbracciandolo. -Sandokan!- rispose il nuovo venuto, con un accento straniero marcatissimo – Brr! Che notte d’inferno, fratello mio».
I due uomini, entrati nella capanna, brindano al loro incontro; Salgàri ne approfitta per descrivere accuratamente anche il fraterno amico di Sandokan, il portoghese Yanez de Gomera: «Il nuovo arrivato era un uomo sui trentatré o trentaquattro anni, di poco più anziano del compagno. Di media statura, robustissimo, aveva la pelle bianca, i lineamenti regolari, gli occhi grigi, astuti, le labbra beffarde e sottili, indizio di una ferrea volontà. A prima vista si capiva che era un europeo e che doveva appartenere a qualche razza meridionale».
Ma doveva era stato Yanez? Anzitutto era andato a cercare, per conto di Sandokan, notizie su una meravigliosa fanciullache viveva a Labuan; egli dunque fa subito il suo resoconto: «Ti dirò che è una creatura meravigliosamente bella, tanto bella da essere capace di stregare il più formidabile pirata… Ha i capelli biondi come l’oro, gli occhi più azzurri del mare, la pelle bianca come l’alabastro».
Sandokan, «in preda a una viva emozione» torna all’armonium e fa scorrere le dita sui tasti. Yanez, allora, «staccata da un chiodo una vecchia mandola, si mise a pizzicarne le corde, dicendo: – Sta bene! Facciamo un po’ di musica». Grande consolazione, la musica…
D’un tratto, però, Sandokan cambia radicalmente: «Non era più lo stesso uomo di prima: la sua fronte era burrascosamente aggrottata, gli occhi mandavano cupi lampi, le labbra mostravano i denti convulsamente stretti, le membra fremevano. In quel momento egli era il formidabile capo dei feroci pirati di Mompracem, era l’uomo che da dieci anni insanguinava le coste della Malesia, l’uomo che in ogni luogo aveva dato terribili battaglie, l’uomo a cui la straordinaria audacia e l’indomito coraggio avevano valso il feroce e sanguinario nomignolo di “Tigre della Malesia”». Sandokan è come l’omerico Achille, un fascio di passioni brucianti, un uomo impulsivo e al tempo stesso calcolatore. Dopo l’inconsapevole e inconfessato sogno d’amore, ecco il ritorno alla “missione” che il formidabile pirata si è assunto da anni: la guerra ai colonizzatori inglesi.
La conversazione si sposta quindi sui potenti nemici della Tigre della Malesia, che ricorda amaramente il suo passato: «Gli uomini di razza bianca non sono forse stati inesorabili con me? Non mi hanno forse detronizzato con il pretesto che io diventavo troppo potente? Non hanno forse assassinato mia madre, i miei fratelli e le mie sorelle, per distruggere la mia discendenza? Quale male avevo io fatto a costoro? La razza bianca non aveva mai avuto di che dolersi di me, eppure mi volle schiacciare. Ora io li odio, siano spagnoli od olandesi o inglesi o portoghesi tuoi compatrioti, io li esecro e mi vendicherò terribilmente di loro, l’ho giurato sui cadaveri della mia famiglia e manterrò il giuramento!».
A questo punto il portoghese accende la prima di un’infinita serie di sigarette (“l’eterna sigaretta”) che fumerà per tanti romanzi; e il capitolo si chiude con Sandokan che decide di recarsi, sprezzando ogni pericolo, a Labuan per vedere la meravigliosa ragazza di cui tanto ha sentito parlare, la “perla”: «Io andrò domani a Labuan. Una forza irresistibile mi spinge verso quelle spiagge, e una voce mi sussurra che io devo vedere la fanciulla dai capelli d’oro».
Tempesta, attesa, amicizia, amore, vendetta, odio, audacia: in queste prime pagine c’è già tutto Salgàri. Un narratore avvincente, come credo si capisca già da questi stralci che abbiamo esaminato, abile nel delineare a tuttotondo con pochi schizzi i suoi personaggi, “nazionalpopolare” quanto occorre in una letteratura di consumo e (almeno apparentemente) poco “impegnata”; tuttavia riscosse il gradimento incondizionato di intere generazioni di ragazzi e ragazze (e anche di tantissimi adulti).
E dire che questo scrittore e giornalista veronese, trasferitosi a Torino, fece gli unici suoi viaggi recandosi in tram alla biblioteca civica, dove consultava mappe e racconti di viaggi esotici e, soprattutto, leggeva e sognava. E i suoi sogni diventavano racconti, avventure, saghe, miti.
Così, scrisse 105 romanzi e 130 racconti in 27 anni, creando romanzi destinati a una fama straordinaria (oltre a quella di Sandokan, i romanzi del Corsaro Nero); in un romanzo intitolato Le meraviglie del duemila (1907) aveva addirittura anticipato la moderna fantascienza, proponendosi come il Verne italiano.
Peccato che questo “divoratore di atlanti e dizionari”, malgrado il crescente successo dei suoi tanti romanzi, sia stato costretto a una vita sempre più alienata e stressante, percependo compensi modesti, appena 300 lire per romanzo (nonostante tirature record).
Incombeva su di lui il ricordo lancinante del suicidio di suo padre, che molti anni prima – credendosi gravemente malato – si era buttato giù dalla finestra. Si uccise anche lui, a Torino, il 25 aprile 1911: uscì di casa, prese il suo solito tram, si portò un rasoio. Lo trovò morto, nella zona del parco di Villa Rey, una giovane lavandaia che era andata nel bosco per fare legna. Aveva vissuto solo per 49 anni.
Palermo, 2 dicembre 2025