Stamattina, dopo quasi quarant’anni, sono tornato nell’area archeologica di Solunto, la “piccola Pompei” della Sicilia.
Solunto si trova, a venti chilometri ad est di Palermo, sulle pendici del versante sud-orientale del Monte Catalfano, di fronte allo splendido Capo Zafferano. Quando si arriva in questo meraviglioso posto, dove il tempo pare essersi fermato, non si sa cosa guardare prima: le rovine dell’antica città fenicia, ellenistica e romana, o la spettacolare vista sul mare.
Secondo Tucidide (VI 2, 6), Solunto era una delle principali città fenicie di Sicilia, insieme a Mozia e Palermo (in realtà l’origine “fenicia” non presenta supporti archeologici adeguati, mentre come autentici fondatori sono stati ipotizzati addirittura gli antichi Sicani). Qualunque ne sia stata l’origine, la città fu conquistata da Dionisio I di Siracusa nel corso della guerra contro i Cartaginesi (396 a.C.); fu poi ricostruita interamente: nella nuova città, disposta a pianta ippodamea sul Monte Catalfano, si insediò (307 a.C.) un gruppo di mercenari greci.
Nel 254 a.C., durante la prima guerra punica, la città passò ai Romani; sappiamo da Cicerone (“Verrine”, II 3, 103) che faceva parte delle “civitates decumanae”. Probabilmente poi il sito, semideserto e in decadenza già dal I secolo, fu definitivamente abbandonato.
Gli scavi iniziarono nel 1825 per interessamento della Commissione di Antichità e Belle Arti; in tale occasione fu rinvenuta a Solunto una statua raffigurante Zeus in trono, oggi conservata al Museo archeologico regionale Antonio Salinas.
Gli scavi furono ripresi sistematicamente solo dal 1952; è così tornato alla luce un settore notevole del tessuto urbano, che permette di ricostruire la struttura della città intorno alla metà del IV secolo a.C.
La sua superficie doveva essere di circa 18 ettari ed era suddivisa regolarmente – secondo l’impianto urbanistico di Ippodamo da Mileto – in una serie di strade orientate da nord-est a sud-ovest, intersecate da assi minori, i quali, disposti perpendicolarmente alla pendenza, sono in genere costituiti da scalinate. Ne risultano isolati rettangolari, di circa 40 x 80 m, disposti con il lato minore sugli assi principali.
La strada principale (oggi ribattezzata “Via dell’Agorà”) è larga da 5,60 a 8 m, e conduce alla zona pubblica della città, situata nella zona nord. La disposizione delle abitazioni riflette certamente diversi livelli sociali: nelle zone periferiche, infatti, gli isolati sono divisi in otto abitazioni, di 400 m² al massimo e prive di peristilio, sostituito da un semplice cortile; invece nell’area centrale gli isolati comprendono sei case, la cui superficie arriva sino a 540 m², sono dotate di peristili e di ricca decorazione musiva e pittorica. L’impianto sembra essere quello della metà del IV secolo a.C., anche se si notano rifacimenti d’età tardoellenistica e romana.
Molto bello e caratteristico è il cosiddetto Ginnasio, una ricca dimora dotata di un peristilio a due piani, con colonnato inferiore dorico e superiore ionico, e con resti di pavimenti a mosaico e di pitture risalenti alla seconda metà del I secolo d.C. Fra le tre colonne principali non si può evitare di scattare delle foto…
Dall’ultima casa a destra lungo la via Ippodamo di Mileto provengono gli affreschi conservati al Museo archeologico Salinas di Palermo; il ciclo di pitture, unico nella Sicilia romana per qualità pittorica, presenta ricche ghirlande di frutti, pigne e spighe da cui pendono maschere teatrali connesse a Dioniso, dio del vino e del teatro.
Dell’antico centro (forse) fenicio, citato da Tucidide, invece, resta solo la necropoli, aperta recentemente perché prima era occultata da sterpaglie; comprende attualmente 220 sepolture portate alla luce dagli scavi dell’800.
Oggi nell’Antiquarium, articolato in due plessi, c’è un padiglione principale dove sono contenuti alcuni elementi architettonici: i capitelli che decoravano le case, alcune statuette tardo ellenistiche e romane, monete di Solunto e di altri centri della Sicilia, ecc. Di notevole pregio artistico è l’emblema musivo che proviene dalla Casa di Leda, realizzato in mosaico. Nel secondo padiglione c’è una mostra di materiale ceramico proveniente dalle abitazioni: si tratta di oggetti utilizzati nella vita quotidiana delle persone, come corredi funerari, tovaglie, stoviglie, suppellettili e oggetti provenienti dagli scavi.
Stamattina ho portato con me mio figlio Andrea, che non conosceva questi scavi. Sotto un sole molto forte, appena contrastato da qualche refolo di vento, abbiamo percorso la Via dell’Agorà e siamo saliti fino al punto in cui si gode la spettacolare vista su Capo Zafferano.
Ci siamo addentrati in una delle tante abitazioni di questa città-fantasma; e ricostruivamo con la mente le varie stanze: un piccolo ingresso, il salone con televisore in pietra (tale sembrava un grosso masso), due camerette da letto, un soggiorno e una cucina); il tutto con un panorama spettacolare che doveva rallegrare il cuore dell’immaginaria famiglia Soluntini che abbiamo ipotizzato vivesse lì…
Non c’era nessun altro: due isolati e perplessi turisti erano scesi mentre noi salivamo: un posto così splendido è sistematicamente e colpevolmente ignorato dai percorsi turistici.
Un’infinità di anni fa, nell’agosto del 1965, quando avevo undici anni, venni a Solunto con mio padre; c’eravamo fatta una bella scarpinata venendo a piedi dall’assonante località di Sòlanto (a pochi chilometri di distanza), dove villeggiavamo.
Io, che indossavo un buffo cappello di paglia (allego la foto), mi aggirai con grande gioia per quelle rovine che non mi sembravano per niente funeree, in mezzo a tutta quella luce accecante e con quel panorama splendido sullo sfondo. Non c’era nessun altro, nemmeno i due turisti di stamattina.
Rovine, sole, mare, cielo azzurro: era il 1965, ma poteva essere il 350 a.C., o un qualunque momento di qualunque secolo successivo. Solunto non ha tempo.
Il 30 giugno 1983 volli tornare a Solunto con Silvana: eravamo “ziti” da un anno e ci preparavamo per le nozze dell’anno successivo: le foto sono particolarmente sbarazzine, in un momento felice della nostra vita (ne allego una). Non c’era nessun altro, tanto per cambiare.
Stamattina siamo ridiscesi un po’ accaldati ma contenti: io, che nella salita alle rovine avevo inizialmente notato la differenza di fiato rispetto a tanti anni fa, avevo poi recuperato impeto e assalto, lo Sturm und Drang benefico dei ricordi mi aveva rigenerato.
Siamo scesi ad Aspra a prendere un gelato: e sentendo sul lungomare qualche illusoria parvenza di odore di mare ricordavo con struggente nostalgia il potentissimo profumo di iodio che veniva da queste acque blu-verdi quando ero bambino: il profumo del mare di Aspra a volte era portato dal vento fino a Bagheria, 4 km più su. Un’altra magia siciliana annientata dal cosiddetto progresso…
Poi ci siamo messi in viaggio per Palermo: e si tratta proprio di un viaggio, 15 chilometri che richiedono almeno un’ora dato il traffico tentacolare della città.
Ecco dove erano migliaia di persone, mentre noi ci aggiravamo per gli spazi senza tempo di Solunto: a godersi gli inestricabili ingorghi di via Messina Marine, di Corso dei Mille (dove a sfrecciare erano solo alcuni tram deserti), di corso Tukory (con le belle zone pedonali attorniate da migliaia di auto intrappolate nel caos).
Sbarcato finalmente al garage, invidiavo quegli antichi signori Soluntini, che vivevano nella loro casetta con il televisore di pietra, nel silenzio e nella pace di quella assolata montagna e con lo sguardo rivolto al mare di cobalto colorato.
Ma il 2021 reclama i suoi diritti…