Nel II libro dell’Odissea Atena, sotto le spoglie di Mentore, si rivolge così a Telemaco, che medita di partire alla ricerca del padre: “Telemaco, mai vile e sciocco sarai, / se pure hai del padre la nobile forza, / com’era lui per compiere imprese o promesse: vano dunque o incompiuto non potrà esserti il viaggio. / Se invece non fossi figlio di lui e di Penelope, / allora non spero che compirai quanto mediti. / In verità pochi figli sono simili al padre; / i più son da meno, pochi migliori del padre. / Ma siccome tu mai sarai sciocco e vile, e davvero l’ingegno d’Odisseo non ti manca, / c’è dunque speranza che tu compia l’impresa” (vv. 270-280, trad. Calzecchi Onesti).
Telemaco in effetti è in una situazione indefinita, che gli procura inquietudine; il padre non c’è e non si sa se sia vivo; la madre cerca di tenere a bada i pretendenti. Il ragazzo si trova sulla soglia tra un “non più” (il tempo del padre) e un “non ancora” (il suo tempo, come successore del padre e responsabile della casa).
Come scrive Franco Ferrucci (nel libro L’assedio e il ritorno, Milano 1991), “per tutto il lungo prologo che precede l’ingresso dell’eroe, il suo ritorno pare dipendere soprattutto dall’intensità con cui il figlio Telemaco sarà capace di volerlo… Se Telemaco avrà fiducia nella propria metamorfosi virile, Ulisse potrà tornare, compiuta immagine dell’adulto di cui il figlio va in cerca”.
Il “riconoscimento” (ἀναγνώρισις) fra Odisseo e Telemaco è narrato nel XVI libro dell’Odissea ed avviene nella capanna di Eumeo. Quando il porcaro si allontana, Atena invita Odisseo a rivelarsi al figlio; provvede quindi a ringiovanirlo, con una delle sue frequenti operazioni di prodigioso lifting: “gli diede giovinezza e prestanza; / d’un tratto fu bruna la pelle, le guance si stesero, / nera divenne intorno al mento la barba” (XVI 174-176). Telemaco si stupisce della metamorfosi dell’ospite e lo considera un nume. Ma Odisseo risponde: “Non sono un dio, no: perché m’assomigli agli eterni? / Il padre tuo sono, per cui singhiozzando / soffri tanti dolori per le violenze dei prìncipi” (vv. 187-189). A questo punto bacia il figlio e scoppia in lacrime.
Telemaco si mostra tuttavia scettico (i “riconoscimenti” raramente sono semplici e immediati); Odisseo allora si adira e rimprovera il figlio: “Telemaco, non va che tu, avendo qui il caro padre tornato, / lo guardi stordito, con troppo stupore. / Un altro Odisseo non potrà mai venire, / perché son io, proprio io, che dopo aver tanto errato e sofferto, / arrivo dopo vent’anni alla terra dei padri. / E questa è azione d’Atena, la Predatrice, / che mi fa come vuole, e può farlo, / a volte simile a un mendicante, altre volte / a un uomo giovane, con belle vesti sul corpo: / facile i numi, che il cielo vasto possiedono, / fare splendido o miserabile un uomo mortale” (vv. 201-212).
Il dubbio non è più possibile; il vuoto dovuto all’assenza di un passato comune fra i due è colmato. Convinto, Telemaco abbraccia il padre: “A entrambi nacque dentro bisogno di pianto: / piangevano forte, più fitto che uccelli, più che aquile / marine o unghiuti avvoltoi, quando i piccoli / ruban loro i villani, prima che penne abbian l’ali: / così misero pianto sotto le ciglia versavano” (vv. 215-219).
Il momento in cui Odisseo e Telemaco si ritrovano nella capanna di Eumeo è il punto di sutura dei due filoni narrativi: Odisseo ritrova la sua identità di padre-sposo-re, Telemaco completa il suo viaggio di formazione verso un’identità definita, quella di figlio di un re vittorioso, pronto un giorno a ricevere la sua eredità.
Non è stato però un cammino semplice. E ce lo dimostra lo psicanalista Massimo Recalcati in un suo libro del 2013, Il complesso di Telemaco. Genitori e figli dopo il tramonto del padre.
Recalcati osserva che negli ultimi anni abbiamo assistito a “una inedita e pressante domanda di padre”, proveniente dalle istituzioni e dal mondo civile: «I padri latitano, si sono eclissati o sono divenuti compagni di gioco dei loro figli. Tuttavia, nuovi segnali, sempre più insistenti, giungono dalla società civile, dal mondo della politica e dalla cultura, a rilanciare una inedita e pressante domanda di padre».
In questa prospettiva, per Recalcati, Telemaco, che resta in attesa del padre per ristabilire la legge a Itaca, suggerisce un nuovo modo di essere figli nell’epoca della morte del padre. Se Edipo uccide il Padre, Telemaco è in attesa del suo ritorno: esprime cioè una radicale invocazione del Padre, scaturita dalla presa di coscienza che senza Legge non c’è Senso, non c’è felicità. Dunque “il complesso di Telemaco è un rovesciamento del complesso di Edipo. Edipo viveva il proprio padre come un rivale, come un ostacolo sulla propria strada. Telemaco, invece, coi suoi occhi, guarda il mare, scruta l’orizzonte. Aspetta che la nave di suo padre – che non ha mai conosciuto – ritorni per riportare la Legge nella sua isola dominata dai Proci”.
Certo, il padre atteso e invocato da Telemaco non sarà più il padre padrone, il padre-eroe, il padre-dio: l’epoca del padre come Legge assoluta è finita. È un padre nuovo quello che viene ora ricercato: un padre-Testimone, che non incarna più la verità assoluta, ma può “testimoniare” con la propria vita e le proprie scelte un Senso possibile, una Legge possibile, una Verità possibile.
Il padre-Testimone può far intuire al figlio che aspirazione alla felicità e rispetto della legge non sono incompatibili: “La vita umana per umanizzarsi deve poter incontrare lo spigolo duro del limite. Il padre è il simbolo della Legge perché rappresenta proprio l’incontro beneficamente traumatico con questo spigolo”.
Recalcati conclude così il suo stimolante discorso: “Siamo stati tutti Telemaco… Siamo tutti figli, che assistono allo scempio nella loro casa da parte dei Proci, figli che attendono appunto l’arrivo di un padre che ristabilisca la legge”. Ma i giovani-Telemaco di oggi sono diversi dal figlio di Ulisse: “sono figli della crisi, della disoccupazione e dell’individualismo; perciò il momento storico attuale rende più urgente il loro bisogno di acquisire la testimonianza del padre… I migliori genitori sono quelli che non fanno gli educatori, in quanto conoscono bene la difficoltà del loro mestiere. I migliori sono quelli che non nascondono le loro insufficienze, ma che sanno incarnare la Legge del desiderio, ovvero che si può vivere su questa terra con gioia e soddisfazione”.
È significativo che il saggio di Recalcati si apra con una dedica ai figli («Ai miei figli, Tommaso e Camilla, ai loro regni») e si chiuda con un toccante ricordo dei suoi genitori.