Il dialetto genovese è ricchissimo di vocali: i cinque suoni vocalici a/e/i/o/u si moltiplicano in suoni intermedi (es. “eu” simile alla “eu” francese, cfr. “choeu” = “cuore”, “u” come la “u” francese in “lüna”) e in suoni brevi o lunghi resi graficamente in maniera diversa (es. “è” aperta breve ed “è” chiusa lunga); in tutto si possono contare circa 14 suoni vocalici diversi, che rendono la pronuncia ostica ai non nativi.
Su questa ricchezza di vocali esiste un gustoso aneddoto. Un genovese e un fiorentino decisero di sfidarsi: avrebbe vinto chi avesse pronunciato la frase con meno consonanti. Il toscano, dopo essersi scervellato un po’, disse: “Io vidi un’aquila in volo”; il genovese allora ebbe buon gioco a rispondergli a tono con una frase formata solo da vocali: “A eia e äe?” (cioè “Aveva le ali?”).
Ma non mancano altre espressioni analoghe, che costituiscono una specie di scioglilingua, come “Lé l’öa de vëi a st’öa” (“È l’ora di ieri a quest’ora”).
A proposito della difficile pronuncia del genovese non mancano gli scioglilingua, ad es. “A-o meu neuo gh’è neue näe neue” (cioè “al molo nuovo ci sono nove navi nuove”), o i proverbi (tristemente attuali) come “O mëgo o va e o ven e chi gh’à o mâ o se o ten” (“Il medico va e viene e chi ha il male se lo tiene”) oppure “Se o mòuto o guaeisce, o mëgo o l’è bravo; se o scceuppa, pezo pe lê” (“Se il malato guarisce, il medico è bravo; se schiatta, peggio per lui”).
Ovviamente queste frasi proibitive andrebbero pronunciate con la “còccina”, la celebre marcata inflessione dialettale genovese resa famosa dal grande Gilberto Govi; che si tratti di un’inflessione simpatica è dimostrato dalla derivazione dal latino “concinnitas”, che vuole dire “eleganza e armonia”; forse sarà strano cogliere questa eleganza ciceroniana nelle schiette espressioni dei “camalli” del porto o nelle sanguigne parole del popolo “zeneixe”, ma è innegabile che la tipica “cantilena” cittadina strappa spesso un sorriso di simpatia ai “forestê”.
Io, come esempio indimenticabile e bellissimo di “còccina” genovese, conservo una registrazione fatta col registratore Geloso di mio padre sessant’anni fa, che immortala la viva voce della nostra “colf” di allora, la corpulenta signora Maria, genovese doc.
Una volta mio padre e mia madre, siculi di Bagheria, erano rimasti sorpresi scoprendo che in genovese “giovedì” si dice “zeuggia”; Maria allora raccontò (al microfono di mio padre) una barzelletta che più o meno era questa: «Un genovese andò dal medico, che dopo la visita gli prescrisse di prendere le medicine tutti i giorni tranne il giovedì. Tornato a casa, il tizio passò in rassegna i giorni della settimana: “Lunesdì, mätesdì, mäcordì, zeuggia, venardì, sabbo, doménega”; perplesso, concluse che il dottore doveva essersi sbagliato, perché questo “giovedì” non esisteva, sicché prese le pillole tutti i giorni, “zeuggia” compreso. Quando tornò dal “mëgo” più malato di prima, il dottore gli chiese se avesse rispettato le sue indicazioni e se avesse per caso preso le pillole anche il giovedì; il paziente negò puntigliosamente, ma poi dovette imparare a sue spese la lingua italiana…».