Nell’anno 52 a.C. Marco Tullio Cicerone fu nominato governatore della Cilicia. Aveva allora 55 anni e di quell’incarico avrebbe volentieri fatto a meno: non gli andava di allontanarsi da Roma per più di un anno e lasciava a casa una situazione non ideale: la sua situazione economica era difficile e la vita familiare era turbata dai continui litigi fra suo fratello Quinto Cicerone e la moglie Pomponia, sorella di Attico.
Il “sacrificio”, va detto, era ben retribuito: la “missione” di un proconsole era di un milione di sesterzi e in più (Verre docet…) era prassi che egli vivesse a carico totale dei provinciali con tutto il suo seguito, imponendo le spese che voleva. Ma Cicerone ebbe modo di dimostrare ancora una volta, anche in questo incarico, la sua onestà, il suo disinteresse e la sua efficienza, comportandosi in modo correttissimo verso le popolazioni da lui amministrate.
Oltre alla Cilicia propriamente detta (situata poco a nord di Cipro, sulla costa sudorientale dell’Asia Minore, nell’attuale Turchia), sotto la giurisdizione dell’oratore erano anche la vicina Pisidia, la Licia, la Panfilia, l’Isauria, la Licaonia, l’isola di Cipro, e tre territori al di là della catena del Tauro. Questo vasto territorio era controllato da due sole legioni: in tutto, con la cavalleria ed i corpi ausiliari le forze romane non dovevano superare i 20.000 uomini (circa un decimo rispetto alle forze dei sempre minacciosi Parti, siti al di là dell’Eufrate, che pochi mesi prima avevano sconfitto e massacrato Marco Licinio Crasso a Carre).
Insomma: non era proprio un incarico semplice, quello che toccava a Cicerone, che al suo arrivo in Cilicia nel 51 a.C. fu accolto a braccia aperte: «L’arrivo di Cicerone fu considerato come quello di un inviato degli dei; veniva un uomo che non aveva mai attinto alle casse dello stato, non aveva mai rubato, vivendo della propria professione (ma le sue parcelle sono le più alte mai chieste in assoluto negli ultimi 2000 anni) ed aveva difeso sempre, in Senato, gli interessi delle province che a lui si erano rivolte ottenendo giustizia» (U. M. Milizia).
In questo contesto Cicerone, per la prima volta nella sua vita, si trovò a dover dirigere delle operazioni militari. In particolare, dovette affrontare un popolo di montanari ribelli, i Pindenissiti; e proprio la città di Pindenisso fu cinta d’assedio dai Romani e, dopo quasi due mesi, fu espugnata.
Di questa spedizione Cicerone riferisce ad Attico in una lettera scritta a fine dicembre del 51 a.C. (V 20); il tono è scherzoso, con un ironico uso di termini epici che vorrebbero innalzare parodisticamente il livello dell’impresa compiuta.
Ecco la parte iniziale del testo: «Cicerone ad Attico salute! Nella ricorrenza dei Saturnali [= 17 dicembre], di buon mattino, gli abitanti di Pindenisso, al cinquantasettesimo giorno da quando avevamo cominciato ad assediarli, mi si sono arresi. “Diamine – dirai tu – Chi sono codesti Pindenissiti? (“Isti Pindenissitae qui sunt?”) Non ho mai sentito questo nome”. E io che dovrei farci? Avrei potuto forse innalzare la Cilicia al livello di un’Etolia o di una Macedonia?» (trad. Di Spigno).
Segue un puntuale resoconto del conflitto, che era iniziato nel mese di luglio: l’arrivo di Cicerone ad Efeso con grande affluenza di gente venuta ad accoglierlo, le altre “manifestazioni profonde di omaggio” a Laodicea (dove il governatore coglie l’occasione per cancellare di botto “tutte le ingiustizie commesse in passato”), l’arrivo all’accampamento (“il 28 agosto passai in rassegna l’esercito presso Iconio”), lo spostamento delle truppe, una battaglia sul monte Amano (al confine con la Siria), la piena vittoria («il 13 ottobre uccidemmo un grande numero di nemici»), la conquista di “fortini munitissimi”, infine l’attacco decisivo a Pindenisso (“città degli Eleuterocilici fortificata di tutto punto”).
A questo punto, fra il serio e il faceto, Cicerone precisa: «Fui salutato “imperator”» (“Imperatores appellati sumus”, con un roboante plurale “maiestatis”). Come è noto, ai tempi della repubblica romana, “imperator” era il titolo assunto da alcuni comandanti militari; le sue truppe, infatti, dopo un’importante vittoria, potevano proclamare il proprio comandante “imperator” (“salutatio imperatoria”); e questa acclamazione era necessaria per richiedere poi al Senato di celebrare il trionfo, cioè l’imponente cerimonia che si svolgeva per le vie di Roma davanti al popolo in festa, con un maestoso corteo fino al tempio di Giove Capitolino, al quale partecipavano il vincitore, i suoi soldati, il senato, i suonatori di corni e trombe, i carri con il bottino e i prigionieri di guerra.
Tuttavia, continuando nel suo tono autoironico, Cicerone riconosce onestamente di non valere quanto Alessandro Magno: «Per pochi giorni rimasi accampato presso Isso, sullo stesso terreno in cui Alessandro, un generale non di poco superiore a te o a me (“imperator haud paulo melior quam aut tu aut ego)”, aveva posto il campo guerreggiando contro Dario».
Il bilancio del conflitto era molto positivo: «I ribelli erano stati massacrati, i superstiti venduti come schiavi, tutto il bottino diviso tra i soldati tranne i cavalli, incamerati nell’esercito per ovvi motivi di logistica; ammirevole il fatto che Cicerone non tenne nulla per sé, al contrario di quanto facevano Cesare e Pompeo che con i proventi delle guerre finanziavano i propri partiti. […] La Pax Romana era tornata nella provincia ed il nemico non aveva più nessuno cui appoggiarsi» (U. M. Milizia).
L’impresa, descritta da Cicerone con ironico distacco, non fu dunque così insignificante e inutile; e a questo punto, sistemati i problemi economici delle sue province, aiutati gli alleati, confermato il dominio romano dal Mar Nero al Mediterraneo, avrebbe davvero meritato il trionfo (a volte se ne concedevano per molto meno).
Ma quando l’oratore rientrò a Roma gli eventi ormai incalzavano: Cesare ben presto passò il Rubicone, scoppiò la guerra civile; e non ci fu mai tempo per celebrare il trionfo di Cicerone sui Pindenissiti. C’è da credere però che l’Arpinate, in ben altre faccende affaccendato, non si sia rammaricato più di tanto.
Che un importante uomo politico riesca a scherzare su se stesso, sminuendo i suoi meriti e minimizzando le difficoltà affrontate, è cosa che oggi appare più unica che rara.
Nella nostra civiltà dell’“apparire” a tutti i costi, molti uomini politici (o presunti tali) sono caratterizzati dall’incapacità cronica di fare autocritica, dal desiderio di sembrare perfetti, dal rifiuto sdegnoso di ogni dichiarazione di “debolezza”.
Forse se, imparando tardivamente a leggere, queste persone prendessero nota di queste pagine antiche, cambierebbero atteggiamento.
O forse, più probabilmente, ci chiederebbero di acclamarli “imperatores” e reclamerebbero uno sfarzoso trionfo per le loro epiche (?) gesta.