Il 20 novembre 1899 a Bagheria nasceva mia zia Giuseppina Pintacuda (familiarmente “zia Pinè”, da “Pinedda”), prima figlia dei miei nonni Salvatore e Giovanna. La famiglia si allargò poi sino a cinque figli: mio padre fu l’ultimo (nacque il 1° gennaio 1916).
Mio nonno era un impiegato del comune di Bagheria, ma continuava il suo lavoro d’infermiere, oltre il servizio comunale, per guadagnare di più (il mensile del municipio era di £. 45) oppure faceva la barba a qualche suo cliente.
Volle assolutamente che i suoi figli studiassero (in un’epoca in cui questa scelta non era né automatica né semplice); così la sua primogenita, zia Pinè, studiò al liceo classico e poi all’Università di Palermo, ove conseguì la laurea in Lettere il 17 giugno 1927 (con il grande filologo prof. Gino Funaioli), Lo stesso anno pubblicò la sua tesi presso la casa editrice Trimarchi di Palermo, ricavandone un saggio critico su Medea, che ancora oggi conservo e consulto con profitto.
Nel 1929, improvvisamente, il nonno morì, lasciando la vedova con cinque figli; fu un colpo terribile per la famiglia, ma tutti si rimboccarono le maniche: il secondogenito Nino prese in pugno la situazione e riuscì a far proseguire gli studi musicali a mio padre e a far continuare la carriera professionale di mia zia. Lei infatti, in seguito a un concorso a Roma, insegnò per un anno a Sondrio, per poi rientrare in Sicilia ove fu docente per 35 anni.
La zia non si sposò mai e visse sempre con la nonna (che morì nel 1963) e con gli altri due fratelli “signorini” (Masino e Ciccina). Insegnò prima a Palermo alla “Cesareo” e poi a Bagheria, concludendo la sua carriera nel 1966 alla Scuola Media “Carducci”.
Il 3 dicembre di quell’anno avvenne in suo onore, nell’aula magna dell’istituto, una solenne cerimonia di saluto, alla presenza dell’allora provveditore Rivarola e del preside Saverio D’Eredità, nonché di numerosi altri presidi ed autorità scolastiche e civili.
In quell’occasione, come si legge in un articolo del tempo (scritto dalla prof. G. Marino), tutti vollero “manifestare il meritato riconoscimento delle alte benemerenze della prof. Giuseppina Pintacuda”: furono messe in luce dal preside e dal provveditore “le qualità essenziali di cultura e bontà del suo magistero scolastico e di vita che, senza dubbio, ha contribuito a dare alla Scuola di Bagheria il tono di alta, dignitosa e seria preparazione che la distingue”.
Si aggiungeva che “l’azione formativa di una vera educatrice non si conclude tuttavia con la cessazione dal servizio, ma continua attraverso l’operato di coloro che si sono formati alla scuola del suo esempio e della sua cultura e, soprattutto, attraverso l’influenza positiva che essa ha esercitato sulla Scuola stessa e che si traduce in incoraggiamento e sprone per i docenti giovani e in fiducia della cittadinanza nel mondo della scuola”.
Per questi motivi, concludeva l’articolo, “la prof. Pintacuda continua ad essere fra noi insegnanti ed alunni, con il suo sorriso buono, proprio di coloro che umilmente, con la loro opera discreta, illuminata dall’alto senso del dovere e sorretta dall’amore cristiano, contribuiscono al progresso civile del popolo”.
Ho citato dettagliatamente questo articolo commemorativo, perché corrisponde pienamente alla realtà.
La zia era bravissima didatticamente, scrupolosa, puntigliosa e precisa; quando correggeva i temi dei suoi alunni, segnalava puntualmente mancanze ed errori, riscrivendo interi periodi in forma corretta per far vedere palesemente come si dovesse articolare il componimento (dovrebbero impararlo alcuni docenti di Italiano, che oggi pensano – per fare prima – che correggere il tema di un alunno significhi solo leggerlo e restituirlo con il solo voto e senza un minimo segno di correzione).
A casa dava pochissime lezioni private, quasi sempre gratis, perché “le pareva male” chiedere soldi a molte famiglie bagheresi che sapeva essere bisognose. Mia cugina Giovanna, memoria storica della famiglia e mia preziosa consulente, mi segnala però che un’estate, in campagna, la zia fu “costretta” a dare lezioni al figlio di un commissario di polizia, che era stato rimandato: il funzionario infatti si era informato sui docenti di Bagheria e aveva voluto assolutamente che fosse lei a preparare il ragazzo; vinse dunque, non senza insistenze, le sue ritrosie ad accettare lezioni private. Inutile dire che, dopo tutte quelle sedute “campestri”, il ragazzo recuperò brillantemente le sue lacune.
Mia zia fu per i suoi cari un costante punto di riferimento: la sua cultura e la sua sensibilità (“il suo sorriso buono” è un dettaglio quanto mai veritiero) furono per tutti un faro di luce.
Era lei la “scrivana” di casa: fu lei a scrivere un diario di famiglia, a quattro mani con il fratello Nino, in cui ancora oggi trovo annotate vicende e situazioni di tanti anni fa; e fu sempre lei, per oltre vent’anni, a scrivere due volte a settimana le lettere che viaggiavano da Bagheria fino a Genova, dove io vivevo con i miei genitori.
Ma la cosa più importante di tutte per me fu che nell’estate del 1967 proprio zia Pinè, fresca di pensionamento, insegnò a me, che dovevo iniziare la IV ginnasio a ottobre, i primi rudimenti di Greco. Mio padre, insigne musicologo, non aveva mai studiato il Greco (cosa di cui non poteva darsi pace e che gli restò sempre come un profondo cruccio), mentre dal canto suo mia madre aveva fatto il classico, ma insegnava Matematica; sicché, durante le vacanze estive, fu la zia a guidare la mia mano di tredicenne a scrivere le prime lettere in greco. Fu lei dunque a fornirmi minuziosissimi appunti vergati di sua mano (ne allego la foto), insegnandomi con chiarezza cristallina i primi difficili rudimenti della lingua greca: accenti, spiriti, enclitiche e proclitiche, dittonghi, ecc.
Ci mettevamo nel suo studio, nella villetta di recente costruzione dove in quell’estate gli zii si erano trasferiti (e dove dieci anni dopo ci trasferimmo anche noi, a secondo piano, dopo aver lasciato Genova).
Un’antica scrivania, un calendarietto da tavolo, tante penne e matite, un fermacarte a forma di lucertola, l’antico vocabolario di Greco dello Schenkl, un quaderno con copertina nera, tanti libri sparpagliati intorno.
C’era un silenzio assoluto, rotto solo da qualche stornello di uccellini dalla campagna vicina, o dal frinire delle cicale, o dall’abbaiare di qualche cane. Ed io, grazie a lei andavo scoprendo scoprivo un nuovo mondo, iniziando a scrivere α, β, γ, δ, ε, ζ, η, ecc., senza poter ancora immaginare che di queste lettere e di questa cultura sarebbe stata poi impregnata tutta la mia vita futura.
Quando il 5 ottobre 1967 feci il mio esordio nella classe ginnasiale IV H al Liceo D’Oria di Genova e conobbi la mia bravissima professoressa di Greco, Dea Bertelloni, potei immediatamente capire quanto gli insegnamenti della zia fossero stati preziosi.
La zia morì quarant’anni fa, il 28 luglio 1981; ma non è morto in me il ricordo di lei, dei suoi preziosi insegnamenti, del suo metodo didattico, del suo affetto e della sua sensibilità. Nella mia carriera di insegnante ho avuto modo tante volte di mettere in pratica il suo esempio, sia a livello didattico sia a livello umano. E oggi, a 122 anni dalla sua nascita, mi è parso doveroso dedicarle queste righe, con un forte ringraziamento per tutto quello che ha fatto per me, per i suoi familiari e per diverse generazioni di allievi.
I miei bambini erano troppo piccoli per conoscerla nelle lettere classiche, ma la ricordano quando gli illustrava libri e riviste e poi costruiva album di immagini ritagliate da riproporgli, fin da quando imparavano a parlare. Mio marito mi ricordava delle sue capacità e della sua dedizione anche per i compiti estivi, quando l’intelligenza brillante ed impaziente di Totò avrebbe preferito altro, ma non si poteva scontentare una zia così affettuosamente disponibile (ed anche la famiglia). Altri tempi.