Come è noto, il teatro di Seneca presenta seri problemi critici:
- è incerta la cronologia, potendosi collocare durante o dopo la collaborazione dell’autore con Nerone);
- non ne è sicura la destinazione, poiché alcuni credono alla rappresentabilità delle tragedie senecane, mentre altri la ritengono improbabile per la presenza di elementi poco “teatrali” (lunghi monologhi, massiccio ricorso all’elemento macabro visibile sulla scena, retorica come tratto costitutivo del linguaggio tragico); in tal caso si ritiene che questi drammi fossero destinati alle pubbliche recitationes o a letture private, piuttosto che alla scena.
Studi più recenti hanno ulteriormente modificato le prospettive critiche:
- si sono liberati i testi teatrali di Seneca dal confronto col teatro greco, invocando un’analisi autonoma dei testi latini;
- si sono inquadrate le cothurnatae (tragedie di argomento greco) senecane all’interno della tradizione teatrale latina, sia tragica sia comica, che riconosce in elementi quali l’espressività, il colorismo e il macabro, nonché nell’elemento retorico, i propri tratti peculiari e le proprie norme di genere.
Il teatro senecano, nel trarre spunto dai modelli greci preesistenti, propone temi nuovi che trovano riscontro nel contesto storico dell’autore: tema privilegiato è quello del potere, di cui Seneca delinea un ritratto negativo.
Una struttura drammatica ricorrente è quella che vede muoversi sulla scena un rappresentante del potere, re o regina (Fedra, Medea, Atreo) in preda ad un insano furor, ed una nutrice o un altro personaggio che tenta di frenare questi folli progetti. La dialettica tra furor e bona mens era un motivo presente nelle opere filosofiche di Seneca, con la differenza che in ambito teatrale le due “ragioni” vengono incarnate in rispettivi personaggi, che si trovano in forte antitesi. Normalmente il personaggio furens non presta ascolto alla voce della saggezza e realizza i terribili disegni che ha in mente.
In particolare, la “Medea” senecana presenta evidenti differenze rispetto al dramma euripideo:
- la protagonista appare sulla scena fin dal prologo, già decisa a vendicarsi di Giasone (pepĕri, “ho figli”), da cui è stata abbandonata per la figlia del re;
- nel dialogo tra Medea e la Nutrice, quando la serva chiama la padrona per nome (“Medea!”) lei risponde soltanto “Lo sarò” (fiam, v. 171; uso qui la traduzione di Alfonso Traina);
- nel dialogo con Creonte, il re comunica alla maga la necessità dell’esilio (“parti di qui, purifica il mio regno”, egredĕre, purga regna, v. 269) usando espressioni che ricordano le Catilinarie ciceroniane;
- il II coro costituisce un aprosdòketon, una “sorpresa” sconcertante: l’impresa argonautica viene deplorata come nefas, atto empio contro l’ordine cosmico; la nave Argo ha infatti unificato “le parti del mondo disgiunte da provvide leggi” (bene dissaepti foedera mundi);
- dopo il violento dialogo tra Medea e Giasone, viene ampiamente descritta la preparazione del micidiale incantesimo attraverso i riti magici compiuti da Medea (la maga prepara “ogni razza di rettili… i vegetali più mortiferi… erbe micidiali… bava velenosa dei serpenti… uccelli sinistri, il cuore di un tetro gufo”, vv. 705 ss.);
- quando un messaggero riferisce la morte di Creusa e Creonte, al coro che chiede di quale inganno siano stati vittima (qua fraude capti, v. 881) il nunzio risponde: “di quello solito ai re, i doni” (qua solent reges capi: / donis, vv. 881-882).
Come in Euripide Medea, in un lungo e travagliato monologo, alterna momenti di furore omicida a palpiti di sincero affetto: “muoiano, non sono miei; periscano, sono miei” (occidant, non sunt mei; / pereant, mei sunt, vv. 934-935).
La maga vede davanti a sé le Furie e lo spettro del fratello Absirto: “Di chi è l’ombra indistinta che viene avanti con le membra in pezzi? È mio fratello, chiede vendetta (frater est, poenas petit): l’avrai, ma pagheremo tutti” (vv. 963-965).
La protagonista uccide poi sulla scena, coram populo, il primo figlio. Salita poi sul tetto del palazzo, mentre Giasone accorre disperato, la donna uccide il secondo figlio e si allontana su un carro alato, accompagnata da una sconsolata sentenza di Giasone: “Va’ per gli alti spazi del cielo ad attestare che non ci sono dèi lassù dove tu passi (testare nullos esse, qua veheris, deos)” (vv. 1026-1027).
È improbabile che Seneca voglia qui negare totalmente l’esistenza degli dèi; Giasone intende dire soltanto che dove c’è Medea è impossibile che vi siano gli dèi, totalmente incompatibili con lei. Così infatti chiarisce Giusto Picone: “Nella chiusa della tragedia a Seneca non interessa, attraverso le parole di Giasone, mettere in rilievo la non esistenza degli dèi ma piuttosto la sovversione che come frutto dell’azione di Giasone, che ha violato il mare e l’ordine cosmico, ha determinato il sostituirsi del mondo di sotto di cui Medea è l’esemplificazione, lo scatenarsi delle passioni, la confusione cosmica, l’irrazionale che ora governerà l’universo e il cielo al posto dell’ordine che era rappresentato dalle divinità celesti. Ecco allora che dove c’è Medea non ci possono essere gli dèi” (“I cento volti di Medea, che Seneca trasformò in mostro”, Fondazione INDA, 5 maggio 2015).
La Medea senecana non aspira soltanto a compiere una vendetta, ma mira a realizzare un nefas, destinato a sconvolgere le leggi naturali e i legami universali tra cielo e terra, tra dèi ed uomini.
Il personaggio di Giasone, d’altro canto, si discosta dall’omologo euripideo, in quanto non fa mistero della sua fragilità e dell’impossibilità di incarnare i valori della bona mens; incapace di opporsi alle argomentazioni di Medea, l’eroe si trova ingabbiato in una situazione di impotenza che lo costringe ad una paralizzante inazione. Giasone è l’ombra dell’eroe del passato, costretto com’è a percorrere una solitaria strada verso l’inesorabile rovina; non vi è dunque alcuna alternativa al trionfo del male senza limiti.
Nell’economia tematica del dramma, un ruolo consistente è svolto dal motivo della navigazione, che occupava già nel testo euripideo un posto di rilievo fin dalle prime parole della Nutrice: nel II coro senecano viene deplorata l’impresa argonautica guidata da Giasone come colpa contro la natura e gli dèi.
Infatti, mosso dal desiderio del regnum, Giasone aveva compiuto un’impresa che risultava un vero e proprio nefas, determinando il ribaltamento dei foedera mundi: “Bene dissaepti foedera mundi / traxit in unum Thessala pinus / iussitque pati verbera pontum, / partemque metus fieri nostri / mare sepositum” (“Le parti del mondo disgiunte da provvide leggi unificò la nave tessala e costrinse il mare a subire la sferza, e il mare lontano fu parte delle nostre paure”, vv. 335-339).
Il prodotto tangibile di tale prima frattura universale (e sua degna ricompensa) è stata Medea: “Quod fuit huius / pretium cursus? Aurea pellis / maiusque mari Medea malum, / merces prima digna carina” (“Quale fu il prezzo di un tale viaggio? Il vello d’oro, e Medea male maggiore del mare, guadagno degno della prima prora”, vv. 360-363).
L’infrazione arrecata dalla spedizione argonautica all’ordine cosmico avrà conseguenze catastrofiche: “Venient annis saecula seris, / quibus Oceanus vincula rerum / laxet et ingens pateat tellus / Tethysque novos detegat orbes / nec sit terris ultima Thule” (“Giorno verrà, alla fine dei tempi, che l’Oceano scioglierà le catene del mondo, si aprirà la terra, Teti svelerà nuovi mondi e non ci sarà più un’ultima Tule”, vv. 375-379).
In definitiva, la Medea è un tipico esempio del teatro senecano, caratterizzato dalla centralità della prospettiva etica, dalla forte incidenza del pathos e dalla forte componente retorica; si tratta, come è stato detto, di un “teatro umanistico e infernale”: “la fabula senecana rappresenta l’inferno, un inferno collocato non, come quello di Omero e di Virgilio di Dante, nelle viscere della terra, ma nelle viscere della psiche” (G. G. Biondi, a cura di, Seneca – Medea Fedra, BUR, Milano 1989, p. 46).
Ottimo