Nel cap. XVI dei “Promessi Sposi”, dopo essere fortunosamente sfuggito alla cattura da parte del “notaio criminale” e di due “birri” grazie all’aiuto della folla milanese, Renzo fugge a gambe levate per le strade di Milano.
Alcuni passanti lo invitano a rifugiarsi in un luogo sacro («Scappa, scappa, galantuomo: lì c’è un convento, ecco là una chiesa»). Ma il giovane ha ormai deciso di scappare non solo da Milano, ma dal Ducato; pensa infatti di non avere ormai scampo: «il mio nome l’hanno su’ loro libracci, in qualunque maniera l’abbiano avuto; e col nome e cognome, mi vengono a prendere quando vogliono». Pensa dunque di dirigersi presso «quel paese nel territorio di Bergamo, dov’era accasato quel suo cugino Bortolo».
Facile a dirsi: ma come uscire da Milano? L’autore sottolinea la difficoltà dell’impresa: «Ma trovar la strada, lì stava il male. Lasciato in una parte sconosciuta d’una città si può dire sconosciuta, Renzo non sapeva neppure da che porta s’uscisse per andare a Bergamo; e quando l’avesse saputo, non sapeva poi andare alla porta».
Si pone dunque il problema di chiedere la strada a qualcuno; Renzo dunque «cominciò a guardare in qua e in là, per isceglier la persona a cui far la sua domanda, una faccia che ispirasse confidenza». Una parola: infatti «la domanda per sé era sospetta; il tempo stringeva; i birri, appena liberati da quel piccolo intoppo, dovevan senza dubbio essersi rimessi in traccia del loro fuggitivo; la voce di quella fuga poteva essere arrivata fin là».
Il giovane montanaro allora inizia a formulare opinioni sulle persone che gli capitano davanti, per scegliere la persona adatta a dare l’agognata informazione.
E qui Manzoni (che ben conosceva le pubblicazioni fisiognomiche dello svizzero Johann Kaspar Lavater) in poco più di dieci righe riesce in modo impareggiabile nell’impresa di descrivere alcuni personaggi in pochi tratti, frettolosi (perché di fretta andava Renzo) ma impagabili per l’ironia dei dettagli; ovviamente questi “ritratti” sono filtrati attraverso il punto di vista del giovane e questo accentua l’abile “gioco” narrativo dell’autore.
Leggiamo: «Quel grassotto, che stava ritto sulla soglia della sua bottega, a gambe larghe, con le mani di dietro, con la pancia in fuori, col mento in aria, dal quale pendeva una gran pappagorgia, e che, non avendo altro che fare, andava alternativamente sollevando sulla punta de’ piedi la sua massa tremolante, e lasciandola ricadere sui calcagni, aveva un viso di cicalone curioso, che, in vece di dar delle risposte, avrebbe fatto delle interrogazioni. Quell’altro che veniva innanzi, con gli occhi fissi, e col labbro in fuori, non che insegnar presto e bene la strada a un altro, appena pareva conoscer la sua. Quel ragazzotto, che, a dire il vero, mostrava d’esser molto sveglio, mostrava però d’essere anche più malizioso; e probabilmente avrebbe avuto un gusto matto a far andare un povero contadino dalla parte opposta a quella che desiderava. Tant’è vero che all’uomo impicciato, quasi ogni cosa è un nuovo impiccio!».
In sintesi: 1) un corpulento personaggio col doppiomento che non sa far altro che un grottesco su e giù sulle punte dei piedi, per di più con l’aria di un chiacchierone intrigante; 2) un ebete con lo sguardo incantato e un labbrone siliconato ante litteram, che pare non sappia nemmeno lui dove andare; 3) infine, un “ragazzotto” anche troppo sveglio, che lascia temere qualche scherzo di cattivo gusto.
Decisamente, la mancanza di un oggettivo, asettico e onesto navigatore satellitare si fa sentire. Ma Renzo finalmente vede arrivare «uno che veniva in fretta» e ipotizza (non a torto) «che questo, avendo probabilmente qualche affare pressante, gli risponderebbe subito, senz’altre chiacchiere».
Ecco quindi il fugace scambio di battute:
«Di grazia, quel signore, da che parte si va per andare a Bergamo?»
«Per andare a Bergamo? Da porta orientale.»
«Grazie tante; e per andare a porta orientale?»
«Prendete questa strada a mancina; vi troverete sulla piazza del duomo; poi…»
«Basta, signore; il resto lo so. Dio gliene renda merito».
Ottenuta la preziosa informazione, il fuggiasco si allontana velocemente («diviato s’incamminò dalla parte che gli era stata indicata»).
Quale scrittore, oggi, indugerebbe su dettagli così fugaci? Magari li riterrebbe superflui e fuorvianti, li considererebbe inopportuni, dispersivi e “distraenti” dalla situazione narrativa specifica. E invece il realismo manzoniano, in queste poche righe, riesce ad esprimere una concezione potente della vita umana, vista come caleidoscopio di individualità tutte diverse, tutte uniche e inimitabili, tutte ugualmente importanti anche nel minimo ritaglio della loro esistenza su questa terra, cogliendole in un gesto, in un atteggiamento, in un particolare fisico, in un’impressione, in un pensiero.
Non solo: fa anche capire (molti anni prima di Pirandello) come ognuno possa “apparire” diversamente agli altri (in questo caso Renzo), come possa essere “visto da fuori” (a torto o a ragione), in una prospettiva che “polverizza” l’unità dell’essere umano nella molteplicità dei modi in cui può essere osservato e giudicato.
Non a caso il narratore onnisciente, unica fonte di verità assoluta, non resiste alla tentazione di riferirci i pensieri del casuale informatore di Renzo, che – mentre il giovane si allontana – riflette così fra sé: «L’altro gli guardò dietro un momento, e, accozzando nel suo pensiero quella maniera di camminare con la domanda, disse tra sé: “O n’ha fatta una, o qualcheduno la vuol fare a lui”». E si può dire che l’ignoto cittadino milanese avesse azzeccato in pieno la sua ipotesi…
E mentre quest’uomo (chissà chi era, chissà come si chiamava, chissà dove andava, chissà perché aveva fretta…) sparisce dal romanzo, il protagonista – attraversata piazza Duomo, superati il forno delle grucce “mezzo smantellato e guardato da soldati” e il convento dei cappuccini – giunge infine a Porta Orientale; e qui, fischiettando sommessamente, rallentando «quelle gambe benedette, che volevan sempre correre», «con un’aria indifferente, con gli occhi bassi, e con un andare così tra il viandante e uno che vada a spasso», esce finalmente da Milano «senza che nessuno gli dicesse nulla; ma il cuore di dentro faceva un gran battere».
Buona fortuna, Renzo!
P.S.:
Ho inserito qui alcune illustrazioni del pittore torinese Francesco Gonin (1808-1889), che corredavano l’edizione “quarantana” dei “Promessi Sposi”.
Mari Siragusa (che ringrazio) opportunamente mi ricorda: «Manzoni aveva espressamente pensato il suo romanzo, nell’edizione riveduta e corretta del 1840, in modo che le illustrazioni di Gonin fossero assolutamente integrate al testo. E non come un semplice “di più”, come un optional da poter tagliare, ma come parte necessaria, assolutamente imprescindibile, senza la quale il romanzo sarebbe risultato monco (e dunque oggi tutte le edizioni proposte ai ragazzi sono monche). Insomma come una vera e propria sceneggiatura cinematografica con immagini annesse, né più né meno. Tanto più che Manzoni era appassionato di lanterne magiche, precursori del cinema. Un rapporto strettissimo tra parole, impaginatura e disegni che oggi non viene per niente considerato e che invece potrebbe risultare molto accattivante per i ragazzi che considerano spesso i Promessi Sposi un macigno».