Nel 1946 l’editore Leo Longanesi di Milano pubblicò le “Memorie del cameriere di Mussolini”, scritte da Quinto Navarra. Il libro fu dettato da Navarra, ma venne materialmente scritto da Indro Montanelli e dallo stesso Leo Longanesi.
Navarra fu cameriere di Mussolini per oltre vent’anni, dal 1922 al 1943; come si legge nell’Avvertenza all’inizio del libro (che fu all’epoca acquistato da mio padre), «il Navarra ha voluto pubblicare questo libro per porre termine ai numerosi e leggendari racconti che hanno germogliato [sic!] sul conto di Mussolini, riportando fedelmente tutto ciò che ebbe modo di osservare durante il suo servizio, fuori da ogni influenza politica o di parte. Egli non intende crearsi una nuova verginità, di cui la sua onestà e la sua coscienza non hanno alcun bisogno, ma vuole soltanto essere fedele alla verità».
Il volume, diviso in dieci capitoli, ripercorre molti momenti della vita pubblica e privata del Duce, soffermandosi spesso su aspetti poco noti della sua controversa personalità; ne vengono rievocati “usi e costumi”, i viaggi, i rapporti con le donne (e soprattutto con Clara Petacci), la vita quotidiana.
In particolare, ci sono tanti dettagli curiosi, quasi “svetoniani” a volte per la loro futilità: l’avversione del Duce per le persone barbute, il suo ordine maniacale, la camomilla come bevanda abituale (che però non lo dovette calmare più di tanto in troppe occasioni), il rifiuto di mettere gli occhiali (dato che «aveva ormai un viso consacrato a un culto nazionale»), lo studio accanito della lingua tedesca, l’amore per la musica classica (ascoltata con un grammofono portato a Palazzo Venezia), la passione per il violino («lo suonava discretamente»), l’amore per il ballo, la sua superstizione («Temo più uno iettatore che un antifascista!»), le poche parentesi di svago (a Riccione, al Terminillo e alla Rocca delle Caminate in Romagna), l’abitudine a pranzare da solo («poiché tornava a villa Torlonia verso le 14 o le 15, ora in cui la sua famiglia aveva sempre già mangiato»), l’amore per i libri gialli e persino irriverenti particolari intimi (l’odio per i profumi e per le mosche, l’uso della pancera, i problemi di stitichezza, e via dicendo).
In particolare mi è capitato oggi di rileggere il racconto di una Pasqua trascorsa da Mussolini in modo assolutamente desolante.
Navarra precisa anzitutto che «Mussolini odiava la domenica e le altre feste comandate dell’anno. Starace, che conosceva questa antipatia di Mussolini, fece ufficialmente vietare le celebrazioni dell’ultimo dell’anno e l’uso tradizionale dell’albero di Natale. Il Natale “riconosciuto” divenne soltanto il Natale di Roma, e l’inizio d’anno da festeggiare non era il primo gennaio, ma il 28 ottobre, principio dell’anno fascista. Il duce non comprese mai la ridicolaggine e l’inopportunità di simili disposizioni, perché tutto ciò che aveva sapore familiare non gli piaceva. Egli aveva una particolare antipatia per le usanze casalinghe, benché dal balcone di palazzo Venezia proclamasse la santità della famiglia, le necessità demografiche e la tradizione».
Si arriva così alla rievocazione di un “tremendo giorno di Pasqua” in un anno imprecisato: «Pioveva a dirotto. Il duce aveva trascorso tutta la mattina a palazzo Venezia, lavorando accanitamente. All’una, uscendo, non mi disse le sue intenzioni per il pomeriggio. Gli chiesi allora se sarebbe tornato. “Non lo so”, rispose cupo. E si avviò all’ascensore senza aggiungere altro. Quella risposta significava rinunciare al mio pomeriggio familiare e attendere il duce in ufficio. Alle tre, Mussolini tornò a palazzo Venezia. Aveva l’umore più nero che al mattino e andò subito al suo tavolo da lavoro. Io raggiunsi il mio posto in anticamera e mi rassegnai a passarvi, da solo, il pomeriggio pasquale. Cominciò a trascorrere il tempo. Fuori continuava a diluviare. L’anticamera era deserta. Mi accorsi, a un tratto, che erano passate più di tre ore e il duce, contrariamente al solito, non mi aveva chiamato nemmeno una volta. Cominciai a impensierirmi. Camminavo su e giù per l’anticamera, avvicinandomi, di tanto in tanto, alla porta, per sentire almeno cigolare una seggiola. Ma non si udiva nulla. Soltanto il rumore della pioggia che si rovesciava a torrenti sulle vetrate del palazzo. Passarono cinque ore: il duce continuava a non dar segni di vita. Presi allora una decisione: arrivai sino al limite opposto dell’anticamera, spiccai una corsa e aprii, affannato, la porta del salone, come per far credere che avevo il dubbio di essere stato chiamato. “Mi avete chiamato, duce?” domandai ansante. Mussolini non mi rispose. Era là, seduto al tavolo, con lo sguardo nel vuoto. Passò un lungo attimo. Ebbi il tempo di accorgermi che il duce non stava né leggendo né scrivendo, ed ebbi la sensazione precisa ch’era rimasto così tutto quel piovoso pomeriggio di Pasqua. Richiusi in silenzio la porta e non gli domandai altro».
Una pagina interessante, perché evidenzia potentemente l’avvilente solitudine di certi dittatori, forse ubriacati quotidianamente dai “bagni di folla” e dal consenso interessato degli adulatori, ma desolatamente soli nei giorni importanti, senza un amico, senza un familiare affezionato, spesso senza neanche un amore.
E l’immagine del potente Duce del fascismo solo nel suo studio nel giorno di Pasqua, “con lo sguardo nel vuoto”, è forse mille volte più autentica di tante altre foto che lo immortalano nelle sue pose esteriori spavalde e boriose.