Nella Lettera 54 a Lucilio, Seneca riferisce di essere reduce da un grave attacco d’asma.
Il filosofo, fin dall’infanzia, era stato di salute molto cagionevole; in quel caso, la “difficoltà di respiro” (“suspirium”) era stata “di breve durata”, “simile a un temporale” (“procellae similis”), ma non per questo meno penosa: «In ogni altro caso si è ammalati; in questo ci si sente morire. Perciò i medici chiamano questo male “meditazione della morte”: talvolta, infatti, tale mancanza di respiro provoca la soffocazione» (trad. G. Monti).
Tuttavia, Seneca non sta scrivendo queste cose «per la gioia di essere sfuggito al pericolo»; infatti sarebbe ridicolo, «come chi credesse di aver vinto la causa solo perché è riuscito a rinviare il processo». Invece la brutta esperienza vissuta provoca una profonda riflessione del filosofo, che ritiene di essere stato ancora una volta “messo alla prova” dalla morte. Tuttavia, di ciò non ha alcuna paura: «Tenti pure. Io la conosco da lungo tempo».
In che senso Seneca, ancora vivo, “conosce da lungo tempo” la morte? E da quando? La risposta è lapidaria: «Da prima che io nascessi».
Inizia qui una vertiginosa riflessione sulla morte e sulla vita, che riporto testualmente: «La morte è il non essere, ed io già so che cosa significhi il non essere. Dopo di me sarà ciò che fu prima di me (“hoc erit post me quod ante me fuit”). Se in tale stato ci fosse sofferenza, di necessità avremmo sofferto anche prima di venire alla luce; ma allora non sentimmo nessun dolore (“nullam sensimus tunc vexationem”). Ora io ti domando: non chiameresti assai stolto chi pensasse che una lucerna, quando è stata spenta, stia peggio di prima che s’accendesse? Anche noi ci accendiamo, poi ci spegniamo (“Nos quoque et extinguimur et accendimur”): in questo periodo intermedio siamo sensibili ai mali, ma prima e dopo godiamo una perfetta tranquillità (“utrimque vero alta securitas est”). Se non sbaglio, caro Lucilio, il nostro errore sta nel pensare che la morte venga dopo, mentre essa, come ci ha preceduti, così ci seguirà. Tutto quello che è stato prima di noi è morte (“Quidquid ante nos fuit mors est”). E che significa non incominciare, o finire di vivere, quando l’effetto dell’una e dell’altra cosa è il non essere?».
Dunque, per Seneca, “ci accendiamo, poi ci spegniamo”. La nostra vita è il lasso di tempo che intercorre fra l’ON e l’OFF di un interruttore.
Noi “ci siamo accesi” il giorno della nostra nascita. Siamo passati da OFF a ON e ovviamente non ricordiamo come; fatto sta che da allora “ci siamo”.
Sappiamo con altrettanta matematica certezza che torneremo da ON a OFF, non sappiamo quando. Il risultato ci dovrebbe riportare alla situazione precedente all’“accensione”, che – per quello che ne sappiamo – coincide con una “non-esistenza” o con uno stato insensibile di “stand-by”.
Ma questa prima riflessione-constatazione inevitabilmente ne provoca un’altra (questa è la dannazione della nostra mente umana).
Infatti, quello che succede a noi è successo/succede/succederà a ognuno. Questo “accendersi” e “spegnersi” che si sta verificando per noi verosimilmente si verificherà ancora infinite volte, magari in contesti spazio-temporali vari e in diverse forme di vita.
E qui non si parla di “metempsicosi”, perché “metempsicosi” vorrebbe dire che i “noi” che ora siamo potrebbero “spegnersi” per poi “riaccendersi”; qui si parla del fatto che continuamente “si accendono” e “si spengono” milioni di interruttori, portando alla vita e alla morte innumerevoli esseri (umani e non); in particolare, ogni essere umano “esiste” e ritiene la sua vita come unica e irripetibile.
Se è così, nulla gli vieta di pensare che il tasto ON/OFF (e lasciamo fuori da questa discussione – come fa anche Seneca in questo caso – “chi” abbia potere su questo tasto) possa riattivarsi in un’altra epoca o in un altro dei miliardi di pianeti dell’universo/multiverso (quanto spazio sprecato!), originando creature che – come noi ora – capiranno di essersi accese e di doversi spegnere.
Secondo Lucrezio, un’eventuale “riaccensione” di altri esseri simili a noi non ci riguarderebbe per niente, una volta interrotta la “repetentia nostri” (“interrupta semel cum sit repetentia nostri”, “De rerum natura” III 851), cioè il ricordo di quegli altri “noi” vissuti in un altro tempo e in un altro luogo. Tuttavia è innegabile che il nostro uni-multiverso è costellato di miliardi di “interruttori”, che si accendono per spegnersi, o si spengono per riaccendersi diversamente, o si spengono per non accendersi mai più, o non si accendono mai. E questo forse fa smarrire la nostra misera mente umana, ma non può fare inceppare il meccanismo che governa l’esistenza.
In fondo, tutti siamo razionalmente consapevoli del fatto che, spenti noi, la vita continuerà su questa Terra e su altre Terre, in forme e con protagonisti diversi, forse sino a un “big bang” alla rovescia, che riarrotolerà su di sé lo “squadernamento” iniziale per ridurre l’infinito a un misero puntino e cancellare infine anche quello.
Intanto possiamo solo constatare senza dubbio alcuno che, come ora (in un giorno del 2024) siamo consapevoli di esistere, di esserci “accesi” il giorno x e di doverci spegnere in un giorno y, esiste/è esistito/esisterà chi ha/ha avuto/ avrà una consapevolezza analoga.
E chi può vietare a ognuno di noi la disperata speranza che possa “riaccendersi” (se non per noi, per altri esseri inconsapevoli come noi) un’esistenza quale che essa sia, restando ignari di tutto il resto ma vivendo la gioia incomparabile di essere ancora nella posizione “ON”?
Seneca chiude la lettera raccontando la conclusione di quel terribile attacco d’asma: «Poco alla volta, quella mancanza di respiro, che ormai diventava semplice affanno, cominciò a manifestarsi a intervalli più lunghi e distanziati. Ma non è scomparsa completamente, e ancora la respirazione non è tornata del tutto normale: sento una certa difficoltà e un certo ritardo nel respiro. Avvenga ciò che vuole, purché non cessi il respiro dell’anima».
Il filosofo aggiunge che non trepiderà davanti alla morte (“non trepidabo ad extrema”), è pronto ad essa (“iam praeparatus sum”), vive alla giornata. Tale infatti è la condizione del sapiente: «il saggio non è mai scacciato dalla vita, perché essere scacciato significa essere costretto ad abbandonare un luogo contro la propria volontà. Ma il saggio non fa niente malvolentieri (“nihil invitus facit sapiens”). Sfugge alla legge della necessità, poiché egli stesso vuole ciò che essa gli comanderà».
La capacità di astrazione dell’antico filosofo spagnolo era sicuramente superiore alla nostra: per noi, certi passi sono impossibili da fare “volentieri” e ci sentiamo deboli e succubi della “necessità”.
Possiamo però illuderci, leggendo quelle pagine antiche provenienti da un “interruttore” così straordinario, di “illuminare” un po’ i giorni della nostra esistenza e di sdrammatizzarne l’ineluttabile percorso. E forse dovremmo lanciare ogni giorno il grido liberatorio che Papillon (Steve McQueen) lanciava al cielo nell’omonimo film di Franklin J. Schaffner (1973), quando finalmente riusciva a scappare dalla galera in cui era stato recluso per decenni: «Maledetti bastardi… sono ancora vivo!».