Il 16 agosto scorso (data poco propizia per attirare l’audience) avevo pubblicato un mio post intitolato “Il patto progressista”, di cui riepilogo anzitutto i concetti principali, accompagnandoli con brevi commenti aggiornati a stamattina.
1) Il sito di adnkronos dava, a 40 giorni dalle elezioni, un’attendibile proiezione sul successo elettorale del “Centro-Destra, trainato da Fratelli d’Italia”; in particolare, secondo l’istituto Demopolis, “Fratelli d’Italia sarebbe con il 24,3% primo partito, un punto e mezzo in più del Partito Democratico, attestato al 22,8%. Al terzo posto, al 15,2%, la Lega; al 10,6% il Movimento 5 Stelle”. Come si vede, rispetto ai risultati che stanno venendo fuori, veniva sottostimata la rimonta dei 5 stelle (cresciuti poi molto nelle ultime settimane) e si dava più credito del dovuto a PD e Lega.
2) Partendo da quei sondaggi, scrivevo: «Il centro-sinistra, prima in occasione della caduta del governo Draghi e poi soprattutto in occasione dell’accordo Letta-Calenda, prima sbandierato e poi miseramente naufragato, ha fornito un’immagine di divisione e incoerenza che ha sconcertato persino gli elettori progressisti, facendo invece un favore gigantesco a un centro-destra che sbandiera orgogliosamente la sua presunta “unità”. Nessuno nel centro-sinistra, e tanto meno Enrico Letta, riesce a parlare alla gente in modo efficace, smontando concretamente le fumose proposte elettorali della controparte: ad esempio, non si spiega chiaramente ai lavoratori che cosa significa davvero “flat-tax” e quanto convenga ai ricchi più che ai poveri; non si chiarisce alla gente il ruolo ormai irrinunciabile degli immigrati nel nostro Paese (purché, è ovvio, siano regolarizzati e sottratti allo sfruttamento e alla xenofobia); non si contestano adeguatamente, svelandone l’inconsistenza, le farneticanti promesse di miracolosi vantaggi economici (“se potessi avere 1000 euro al mese”) ed ecologici (“pianteremo un milione di nuovi alberi l’anno”, comunque assai meno di quelli già previsti nel PNRR e negli impegni del G20). Inoltre, la sinistra appare permissiva e per lo meno distratta sul tema della sicurezza, un tema invece molto sentito dalla gente, che chiede maggiore sicurezza per sé e – soprattutto – certezza della pena per chi commette reati. […] Non mancano poi altri passi falsi, come la proposta di Letta di un’imposta di successione sui patrimoni per garantire una “dote” ai diciottenni: rispondere al “taglio delle tasse” berlusconsalviniano con una promessa di aumento di tasse sa tanto di autogol».
Queste mie osservazioni volevano essere un contributo per orientare una campagna elettorale progressista che appariva colpevolmente lontana dalla gente ed arroccata in una dimensione “alta”, che – oltre a dimenticare le vere radici della sinistra, ma anche del progressismo di centro – delegava al Masaniello di turno (Conte) il compito di appropriarsi concretamente del consenso delle masse.
3) Aggiungevo, già allora (come ho ripetuto invano sabato scorso), un appello a fare di tutto per combattere il fenomeno dell’astensionismo, che ieri si è manifestato in modo eclatante (ha votato solo il 63% degli elettori, con 37 persone su 100 che non hanno potuto o voluto partecipare al voto). In particolare, scrivevo: «Questa percentuale enorme di voti mancati dovrebbe essere recuperata con un lavoro capillare, con un “porta a porta” (senza Bruno Vespa) mediatico, con semplici e diretti messaggi che spieghino alla gente l’importanza del voto e della posta in palio».
4) Il mio giudizio sulla campagna elettorale del centro-sinistra era espresso poi, credo chiaramente, con queste considerazioni: «Pochi, nel centro-sinistra, riescono (e ciò paradossalmente diventa un demerito) a far proprie le forme di comunicazione spicciola ma incisiva della destra, la quale invece riesce a sparare slogan di facile presa (meno tasse, meno immigrati, meno burocrazia, più ordine pubblico) proprio per l’abbassamento dei livelli di comunicazione mediatica. La pretesa intellettualoide di filosofare astrusamente su certi temi “belli” e la speranza ingenua nel miracolo di un’adesione “per fede” al programma progressista rischiano di rivelarsi autolesionistiche illusioni. Ci vorrebbe, invece, un modo di comunicare più giovane, più immediato, più concreto soprattutto». Parallelamente, sottolineavo l’inconsistenza dei sogni sulla riproposizione sterile di un’“agenda-Draghi” da cui lo stesso Draghi sembrava apertamente defilarsi.
5) La mia conclusione (desolante ma ieri sera confermata dai fatti) era questa: «In base a questa situazione oggettiva, si ha la sensazione che gli elettori tendano sempre più a considerare il centro-sinistra come un agglomerato informe, diviso, inaffidabile, parolaio e – diciamolo pure – “sfigato”».
Che cosa ritenevo opportuno, allora, per arginare “il quasi inevitabile trionfo del destra-destra”?
Proponevo un “patto progressista”, “basato su ciò che unisce le varie anime del centro-sinistra”: in particolare «un patto che bypassi per ora le divergenze interne e miri a un unico prioritario obiettivo: non consegnare la maggioranza assoluta del nuovo parlamento (perché di questo si tratta) alla destra-destra. A chi replicasse che questa convergenza risulterebbe forzata, aleatoria e provvisoria, si potrebbe rispondere che “ubi maior minor cessat” e cioè che, quando c’è in gioco una posta così alta, bisogna assolutamente sfuggire alla logica aberrante del “Muoia Sansone con tutti i filistei”».
Non mi illudevo però che la cosa fosse facile, soprattutto «per la storica tendenza scissionista e suicida della sinistra italiana e soprattutto perché (spiace dirlo) diversi attuali esponenti politici non sembrano all’altezza della migliore tradizione progressista del Paese».
L’esito elettorale di ieri conferma in modo palmare le osservazioni di cui sopra. Se il “patto progressista” fosse nato (in qualunque modo e con qualunque parto travagliato), oggi alla Camera avremmo (in base all’ultima proiezione sui risultati, di pochi minuti fa) il 49,14% per l’eventuale fantacoalizione di Letta-Conte-Renzi-Calenda, contro il 44,15% che il centro-destra ha ottenuto; al senato, poi, i progressisti avrebbero avuto il 49,12% contro il 44,39% che attualmente viene accreditato ai conservatori.
Certo, se questa unione progressista fosse stata fatta solo a fini elettorali, senza un programma condiviso e senza prospettive comuni, ci si sarebbe trovati presto nel solito pantano e avremmo assistito al solito squallido spettacolo di ripicche infantili, protagonismi inutili e congenita astrattezza di prospettive. Ma per creare l’unione sarebbe stato necessario anzitutto poter contare su dei leader di grande spessore politico, culturale, umano: cosa che, all’atto pratico, manca del tutto, oggi, nello schieramento progressista.
In definitiva, dunque, mentre la signora Meloni diventerà presidente del consiglio:
1) il PD si leccherà le ferite e dovrà seriamente riflettere su un cambio di rotta che lo riavvicini alla gente; riflettano anche, i suoi esponenti più illuminati, sul deludentissimo esito delle elezioni regionali siciliane, ove – a parte la prevedibile vittoria di Schifani – la pur validissima candidata Caterina Chinnici è stata surclassata nei voti persino dall’irruente e scatenato sindaco di Messina, Cateno De Luca;
2) il Movimento Cinque Stelle, “degrillizzato” e “contizzato”, potrà essere soddisfatto della “rimonta” (esponenziale nelle ultime due settimane), ma di fatto non potrà incidere più di tanto sulla scena politica, col suo 15% solitario, senza venire a patti con quell’asse progressista che di fatto ha contestato e vanificato;
3) la Lega, ridotta a circa il 9% dei consensi (di poco al di sopra di Forza Italia), dovrà riflettere a sua volta sulla sua leadership, rinunciando a certi sogni di gloria (es. il ministero degli interni a Salvini) e adeguandosi alle direttive della nuova premier, pena il suo ulteriore declassamento;
4) Renzi e Calenda, riusciti nell’impresa di raggranellare un accettabile numero di consensi (ai danni però principalmente del centro-sinistra), rischiano di avere un ruolo pericolosamente ambiguo, per cui dovrebbero subito fare chiarezza sulle posizioni che intendono assumere rispetto alle altre forze in campo;
5) Silvio Berlusconi se ne farà una ragione e rinuncerà alla carica di presidente del Senato che la nuova leader della coalizione sa di non potergli dare (semmai accontenterà i forzisti con la presidenza della Camera a Tajani);
6) il presidente della Repubblica prenderà atto dei dati elettorali e agirà come sempre nel rispetto della Costituzione e della volontà degli elettori; ma niente – lo crediamo – potrà indurlo a deflettere dal ruolo che ha scelto lui stesso di interpretare per altri sette anni, senza lasciarsi tirare per la giacca da niente e nessuno; il ruolo di garante di Mattarella potrà essere il faro di riferimento per un Paese sostanzialmente spaccato in due e (non dimentichiamolo) in cui il 35% delle persone di fatto non partecipano alla vita politica.
Ieri Concita De Gregorio su “Repubblica” impietosamente definiva gli Italiani “un popolo bambino al Luna park”, scrivendo: «In fondo è solo un altro giro di giostra. […] Il popolo bambino è disilluso, capriccioso, irresponsabile. Vuole un’emozione nuova, un capopopolo diverso. Vuole qualcuno che risolva i suoi problemi al posto suo, e se non funzionerà poi lo manderemo via presto come abbiamo fatto sempre». Ma aggiungeva: «Non sempre la Storia la capisci mentre accade, questo ci insegnano i vecchi che restano. Non sempre il consenso di popolo equivale al bene; avere memoria della Storia suggerirebbe di fare attenzione. A ricordarlo, il passato» (un passato, però, ignorato e dimenticato dalle nuove generazioni, cui non abbiamo saputo insegnarlo e spiegarlo).
La riflessione dell’opinionista, provocatoria e un po’ offensiva verso gli Italiani (ci risiamo: il fronte progressista non sa come parlare alle masse!), cela un’implicita speranza, che in fondo si lega a una realtà di fatto: in Italia chi governa perde consensi. Ma, come diceva il console Sharpless a Pinkerton nella “Madama Butterfly” di Puccini, quando il tenente americano si preparava a sposare (per gioco) la bella Butterfly: “Badate, ella ci crede”. Per l’appunto: Giorgia Meloni ci crede: si potevano sottovalutare i suoi grotteschi alleati, ma lei no.
L’epoca delle promesse elettorali è finita: vedremo, ora, alla prova il nuovo governo, che di gatte da pelare ne avrà fin troppe.
Occorrerà che il popolo dimostri di non essere “bambino”, di non volersi accontentare del “giro di giostra”, di pretendere di essere governato bene e di stare davvero meglio. A un bambino puoi promettere caramelle e regali ma poi, se non glieli dai davvero, ci resta male e te lo fa capire molto chiaramente.