Enzo Mineo e l’aula bunker nel ricordo di sua moglie Esther

Stamattina sul sito di LiveSicilia.it leggo il seguente articolo di Roberto Puglisi, che riporto con una certa amarezza, riservandomi di scrivere dopo la sua citazione qualche breve considerazione personale.

 “Il mio Enzo nell’aula bunker, ora provo amarezza” – Il ricordo di un grande palermitano nelle parole di sua moglie. Quell’incontro con Falcone.

“Enzo stava indietro due passi, ma in alto su tutti. Andava avanti, sempre mantenendo un approccio con il lavoro di alta qualità e curando ogni singola persona come fosse unica. I fatti fanno la storia, e non le parole. Lui ha fatto la storia del maxi-processo, creando un lavoro di squadra”.

Al telefono, la voce di Esther Ajello è un impasto di tante cose.

C’è il coraggio, c’è l’amore che la scomparsa di Enzo ha privato dell’abbraccio, senza attenuarlo.

E c’è l’amarezza, nelle parole di questa signora mite e risoluta, moglie di Vincenzo Mineo, direttore dell’aula bunker, intitolata a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

 “È sacrosanto – dice la signora Ajello – che due eroi civili come Falcone e Borsellino vengano ricordati. Ma non si dovrebbe dimenticare il resto come, mi sembra, stia accadendo, se rifletto su certe omissioni. Penso ad Alfonso Giordano, che ebbe il coraggio di presiedere quel processo così innovativo. E penso a Vincenzo Mineo, sì, al mio Enzo, che ci ha lasciati troppo presto. La mia non è una protesta contro qualcuno, né una lamentela. Ma mi procura amarezza constatare che ci sono pezzi importantissimi di storia trascurati, o, almeno, non valorizzati come sarebbe giusto. Mio marito aveva le chiavi dell’aula bunker. Si occupò dell’organizzazione e divenne, suo malgrado, un possibile bersaglio mobile. Va ricordato”.

Nel racconto di Esther, che, adesso, ci decidiamo a chiamare per nome, con il rispetto dovuto a un’amica di questa città, come suo marito era amico di Palermo, scorrono le immagini di quegli anni e la sofferenza di chi li visse in trincea, familiari compresi.

“I bambini, i nostri figli – dice lei – sapevano che il papà lavorava in tribunale e niente di più. Vigeva il massimo riserbo che rappresentava l’unica probabilità di sicurezza. Enzo usciva da casa alle sette del mattino e tornava alle dieci, a mezzanotte, alle tre… Oppure non tornava. Era il perno della logistica, di tutto. Ricordo una sera, quando arrivò Buscetta. Mi raccomandò: ‘Chiuditi dentro, con i bambini. Verrò io a dirti quando siete liberi’. A casa piovevano telefonate di minacce e di insulti, le prendevo io. Ho cercato di nascondergliele, per non farlo preoccupare, ma era troppo intelligente per non capire. Infatti, lo capì”.

E poi c’è una memoria ancora più indelebile.

“Eravamo a Roma, di venerdì. Lui doveva andare dal dottore Falcone che, qualche giorno dopo, sarebbe morto nell’attentato di Capaci, con la moglie, Francesca Morvillo, e la scorta. Eravamo insieme con nostra figlia, Mariangela, che era una bambina. Enzo disse: ‘Aspettate un attimo che vado da Falcone’. Aspettammo un’ora e mezza, io e Mariangela, in una chiesa. E pregammo per il giudice Giovanni, nelle nostre preghiere gli davamo del tu. Enzo tornò, sorridendo: ‘Falcone mi ha rimproverato, perché non vi ho portate con me. Dottore Mineo, mi ha detto, la prossima volta mi faccia conoscere sua moglie e sua figlia…’”.

E qui la voce di Esther si interrompe.

E qui si sente un pianto attutito, sommesso e lancinante.

Non ci sarebbe mai stata nessuna prossima volta.

(Roberto Puglisi)

L’intitolazione dell’aula bunker a Falcone e Borsellino, come mi è già capitato di scrivere, ha avuto il prezzo (eccessivo) di un oblìo ingiusto e ingeneroso verso personaggi come Alfonso Giordano ed Enzo Mineo.

Il loro senso del dovere, il loro servizio allo Stato, il loro sacrificio e i loro rischi sono stati dimenticati come se fossero stati impliciti e ovvi; ma senza di loro quel maxiprocesso non sarebbe nato, non si sarebbe fatto e non avrebbe avuto l’esito che ha avuto.

Enzo, mio indimenticabile amico, uomo di statura morale e professionale eccelsa, ha sempre compiuto il suo dovere in silenzio, senza amare riflettori e sovraesposizioni, con un senso dello Stato encomiabile ed esemplare.

Il racconto di Ester (cui mi ostino a togliere l’H dal nome perché non ce l’ho voluta mettere mai) mi ha commosso e turbato; e appaiono sacrosante le sue accorate parole: «La mia non è una protesta contro qualcuno, né una lamentela. Ma mi procura amarezza constatare che ci sono pezzi importantissimi di storia trascurati, o, almeno, non valorizzati come sarebbe giusto».

Questa città dalla memoria labile, questa città che ignora/svaluta/dimentica chi fa il suo dovere con dignità, discrezione e senso del sacrificio, questa città che spesso si compiace più di vetrine esteriori che di sostanza e di realtà, forse ha avuto – da alcuni suoi Figli coraggiosi e leali – più di quanto meritasse. Buon per lei.

Ma Ester sa benissimo che, se c’è chi dimentica, c’è sempre – per fortuna – chi ricorda, chi sa riconoscere i meriti, chi non crede che si possano cancellare con una cerimonia di un giorno anni e anni di dedizione ai più profondi ideali di verità e giustizia.

E quindi saremo noi, noi che gli abbiamo voluto bene, che l’abbiamo stimato e portato nel nostro cuore, quelli che non dimenticheranno Enzo e che gli esprimeranno ancora e sempre la loro gratitudine e il loro incrollabile affetto.

Di Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico "Andrea D'Oria" e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all'Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E' sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.

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