Pochi giorni fa è uscito un nuovo libro che presenta racconti di Andrea Camilleri: si tratta di “La guerra privata di Samuele e altre storie di Vigàta”, edito da Sellerio. Il volume comprende due racconti inediti (“La prova” e “La guerra privata di Samuele, detto Leli”) e altre quattro storie già pubblicate in tempi diversi (“L’uomo è forte”, “I quattro Natali di Tridicino”, “La tripla vita di Michele Sparacino” e “La targa”).
Ancora una volta, come scrive nella premessa di copertina Salvatore Silvano Nigro, ci troviamo di fronte a “una rete di storie, ovvero una proliferazione di intrecci sorprendenti”; infatti “la consueta concentrazione espressiva, la scrittura scenica di geniale lucidità, e il talento umoristico, consentono a Camilleri di tradurre con spigliatezza il ludico nel satirico, facendo giocare il tragico con il comico: senza però escludere momenti d’incanti emotivi”.
Di particolare interesse è il secondo racconto inedito, “La guerra privata di Samuele, detto Leli”, che (come scrive ancora Nigro) tratta della “discriminazione razziale, in un ginnasio, nei confronti di uno studente ebreo che sa però come boicottare e sbeffeggiare, fino alla allegra e fracassosa rivalsa, la persecuzione quotidiana di professori istupiditi dal regime”.
Camilleri presenta qui una memoria autobiografica, risalente alla “prima ginnasio” da lui frequentata nell’anno scolastico 1937/1938; in quella classe “Nenè” (come veniva chiamato familiarmente l’autore) divenne amico di Samuele Di Porto detto “Leli”, figlio del capostazione locale.
L’amicizia fra i due ragazzini (che all’epoca avevano circa 12 anni) nacque alla metà del secondo mese di scuola, quando si presentò in classe il nuovo professore di Religione, don Angelo Ramazzo.
La descrizione del “parrino” è minuziosa quanto esilarante: «Don Ramazzo era sì un parrino, ma pariva un armuàr, tanto era àvuto e grosso. Aviva ‘na testa enormi con dù occhi a palla precisi ‘ntifichi a fanali d’automobili. La tonaca era tutta macchiata di lordie varie, dal suco di pasta al giallo d’ovo. Supra al petto portava uno sparluccicante distintivo del fascio» (p. 138). Il gigantesco prete unisce l’aspetto sporco e trasandato a un’esibizione smaccata della sua ideologia fascista.
Ben presto don Ramazzo mostra la sua avversione a Leli, che viene costretto a gridare ad alta voce, più volte, stando in piedi, la sua appartenenza alla fede ebraica.
La ripetuta umiliazione del compagno, indotto quasi alle lacrime dal “parrino”, provoca la sdegnata reazione di Nenè, che sbotta in un roboante “Basta!”. Don Ramazzo reagisce con una furente requisitoria contro gli ebrei: «Sono stati gli ebrei ad ammazzare Gesù! Questa razza maledetta ha le mani sporche del suo sangue! Loro lo hanno fatto mettere sulla croce! E ora, non contenti, tramano contro il nostro Duce! D’accordo coi massoni, congiurano contro il fascismo!» (p. 141).
Subito dopo, Leli viene isolato e al suo fianco viene collocato proprio il ribelle Nenè: «Così in un unico banco abbiamo l’ebreo e l’amico dell’ebreo». Il commento dell’autore è però quanto mai esplicito: «Potevamo non addivintari amici?».
Ma i guai per Leli non sono finiti; infatti, dopo un’iniziale assenza da scuola, torna la docente titolare di Scienze, la signorina Ersilia Zaccuto, che viene a sua volta presentata in modo grottesco: «Àvuta sì e no un metro e quarantacinco, aviva i baffi, le gammi storte e un paro d’occhiali a funno di buttiglia. S’appresentò vistuta in sahariana, e con la M di Mussolini che le abballava ‘n mezzo alle minne, che era la divisa delle fìmmine fasciste» (p. 142). Anche questa docente mostra subito un atteggiamento pesantemente razzista verso Leli, che viene schiaffato in fondo all’aula con la schiena rivolta alla classe.
Quando Nenè arriva a casa, disorientato, chiede consiglio a suo padre: «Papà, vero è che l’ebrei sunno genti tinta?» (p. 143); ma il genitore, benché di fede fascista, si limita a chiedere se Leli sia “un bravo picciotto” e, avutone conferma, sentenzia: «E allura stracatafottitinni di quello che dicino don Ramazzo e la Zarcuto!» (p. 144).
Quando, una settimana dopo, Camilleri viene allontanato dalla classe con Leli durante l’ora di Religione, protesta vibratamente col preside proclamandosi “cattolico, apostolico e romano”; intanto però i due ragazzi sono costretti a passare quell’ora in cortile, «tra l’immidia ginirali dei compagni» (p. 146).
A partire da questo “esilio” comincia a maturare la vendetta di Leli che (con astuti espedienti che qui non rivelo per non rovinare la vostra lettura) riesce a prendersi la rivincita sui due indegni insegnanti.
Basti solo segnalare qui una parentesi esilarante, che descrive l’astuta protesta che il padre di Leli attua contro la scuola, che si è rifiutata di classificare suo figlio in Scienze: l’uomo si presenta al preside “in pirfetta divisa fascista” e protesta vibratamente per la discriminazione subìta dal ragazzo, imitando atteggiamenti e movenze del Duce: «Esigo – fici l’omo con una voci pricisa ‘ntifica a quella ‘mpiriosa di Mussolini mentri il presidi ‘ncassava la testa tra le spalli – che mio figlio sia interrogato immediatamente! Non è ammissibile che nella nuova scuola creata dalla rivoluzione fascista un giovane sia…». Qui il padre di Leli viene senz’altro accontentato e può allontanarsi soddisfatto facendo il saluto romano e sbattendo i tacchi; peccato che, come Leli confesserà poi a Nenè, suo padre sia in realtà un convinto antifascista e che, per l’occasione, avesse trasformato la divisa del vicecapostazione in quella di un gerarca fascista…
Nel successivo anno scolastico, però, continuano le provocazioni della prof. Zarcuto nei confronti di Leli; il risultato è un forte ulteriore consolidamento dell’amicizia fra i due ragazzi: «Mentri la Zarcuto liggeva un papello nel quali si diciva come la razza italiana non doviva lassariri ‘nquinari da quella ebraica, la mano di Leli, squasi a circari conforto, si posò supra alla mè gamma. Allura io posai la mè mano supra alla so. Ristammo accussì fino a quanno la liggiuta dell’articolo non finì» (p. 171).
I tempi sono sempre più neri: Mussolini prepara le leggi razziali, provocando la sdegnata reazione del padre di Camilleri: «Sto grannissimo testa di m****** di Mussolini s’è lassato persuadiri dal so amiciuzzo Hitler! L’ebrei sunnu pricisi ‘ntifici a noi! Che c**** di differenza c’è?». Queste e altre “parolazze” del padre non suscitano, stavolta, alcuna protesta moralistica della mamma di Nenè, che in questo caso condivide pienamente lo sdegno del consorte.
Alla fine di novembre del 1938 Leli viene espulso dalla scuola e l’indomani si apprende che la sua famiglia è partita, non si sa per dove. L’ultimo ricordo che Nenè conserva per anni di Leli è il suo saluto dalla corriera che lo porta via: «mi salutava col vrazzo isato, agitanno la mano».
La vicenda non si chiude qui, ma non ne rivelerò la conclusione. Basterà aver colto, di questo bel racconto, il forte senso di solidarietà umana di fronte alle più eclatanti ingiustizie, l’esaltazione di un’amicizia che sfugge a tutti i biechi pregiudizi, la sarcastica polemica contro l’arroganza di un regime bieco e retrivo. Il tutto con uno stile come sempre piacevolissimo, intessuto d’ironia, con un contenuto ma evidente pathos nei momenti che lo richiedono, vivacissimo e mai pesante e noioso in nessun momento.
Così, ancora una volta, il Maestro continua a parlarci e a darci lezioni (di cui sempre più abbiamo bisogno) di apertura mentale, di dialogo, di reazione sdegnata a tutte le ingiustizie e le prevaricazioni.