L’immagine dell’agnello di Dio trova la sua prima testimonianza nell’Antico Testamento, laddove si cita l’agnello pasquale degli Ebrei, il cui sangue, posto sugli stipiti delle porte per ordine di Dio, li avrebbe salvati dall’Angelo sterminatore (cfr. Esodo). In questo passo i cristiani rilevano una prefigurazione simbolica del Messia, l’Agnello il cui sangue salva dalla morte e il cui sacrificio è perenne.
Inoltre l’agnello ricorda la notte in cui il popolo d’Israele fuggì dall’Egitto sotto la guida di Mosè; era la notte di Pasqua ed ogni famiglia doveva arrostire un agnello e mangiarlo in piedi, prima di affrontare il lungo viaggio. Anche presso altri popoli nell’antichità era usanza che si sacrificassero gli agnelli, bene prezioso per una famiglia, a Dio.
Il profeta Geremia, perseguitato dai suoi nemici, si paragona ad un “agnello che viene condotto al macello” (11, 19). L’immagine è ripresa poi da Isaia, che l’applica al Servo del Signore il quale, morendo per espiare i peccati del suo popolo, viene descritto “come un agnello condotto al macello, come pecora muta e che non apre bocca di fronte ai suoi tosatori” (53, 6-7); la figura del servo di JHWH fu interpretata dagli ebrei come figura del popolo di Israele, da altri come una profezia messianica.
Il Nuovo Testamento riprende entrambe le prospettive dell’Antico (l’agnello pasquale e il “servo del Signore”). In particolare l’applicazione della profezia a Gesù, identificato col Messia, è proclamata da Giovanni Battista nel vangelo di Giovanni: «Ecce Agnus Dei, ecce qui tollit peccatum mundi» (1, 29); all’ideale di purezza collegato all’agnello, Giovanni Battista aggiungeva quello dell’universalità: (“i peccati del mondo”, quindi non solo quelli di Israele).
L’immagine fu ripresa dall’evangelista Giovanni nell’Apocalisse, ove si trovano numerosi riferimenti all’Agnello. La tradizione cristiana ha visto in Cristo il vero agnello pasquale e la sua missione redentrice è descritta nella prima lettera di Pietro, negli scritti giovannei e nella lettera agli Ebrei.
Si può aggiungere che negli agnelli furono poi simboleggiati tutti i cristiani, affidati alla custodia di Pietro e dei suoi successori (Gesù dice a Pietro: «Pasci i miei agnelli», Βόσκε τὰ ἀρνία μου, Giovanni 21, 15-16); i cristiani-agnelli dovranno andare in mezzo ai lupi per convertirli («Andate: ecco io vi mando come agnelli in mezzo ai lupi», ὑπάγετε· ἰδοὺ ἀποστέλλω ὑμᾶς ὡς ἄρνας ἐν μέσῳ λύκων, Luca 10, 3): l’immagine torna spesso nei mosaici paleocristiani.
Nel rito romano della Messa, la formula dell’agnus Dei viene ripresa con l’aggiunta della supplica dei due ciechi nel vangelo di Matteo: «Miserere nobis, fili David» (9, 27): l’invocazione ricorre sia nella glorificazione iniziale (Domine Deus, Agnus Dei, Filius Patris, qui tollis peccata mundi, miserere nobis) sia nel canto preparatorio alla Comunione, scandito in tre proposizioni: «Agnus Dei, qui tollis peccata mundi, miserere nobis. / Agnus Dei, qui tollis peccata mundi, miserere nobis. / Agnus Dei, qui tollis peccata mundi, dona nobis pacem» («Agnello di Dio, che togli i peccati del mondo, abbi pietà di noi. / Agnello di Dio, che togli i peccati del mondo, abbi pietà di noi. / Agnello di Dio, che togli i peccati del mondo, dona a noi la pace»).
L’inserimento della triplice invocazione risale al 687, quando papa Sergio I (palermitano di lingua greca, originario di Antiochia) decretò che durante la frazione del pane clero e fedeli intonassero questa litania; la decisione fu presa per continuità con la tradizione cristiana greca.
L’immagine dell’agnello torna nella rievocazione della settimana santa, allorché durante il rito del Venerdì Santo, che rievoca la passione e morte di Gesù, vengono recitati i passi profetici di Isaia e Geremia.
C’è però un serio problema interpretativo nella traduzione “tu che togli i peccati del mondo”.
Infatti il testo greco del Vangelo di Giovanni è il seguente: Τῇ ἐπαύριον βλέπει τὸν Ἰησοῦν ἐρχόμενον πρὸς αὐτόν, καὶ λέγει Ἴδε ὁ ἀμνὸς τοῦ θεοῦ ὁ αἴρων τὴν ἁμαρτίαν τοῦ κόσμου; Pietro Rossano (ed. B.U.R.) traduce così: «Il giorno dopo Giovanni vede Gesù venire a lui, e dice: “Ecco l’agnello di Dio, che toglie (“àirōn”, αἴρων) il peccato del mondo!”».
Tuttavia il verbo “àirō” (αἴρω) in genere non vuol dire “togliere”, ma “prendere (per portare), alzare, sollevare”.
Vero è che il significato di “togliere” esiste pure ed è attestato nello stesso Vangelo di Giovanni (πᾶν κλῆμα ἐν ἐμοὶ μὴ φέρον καρπόν, αἴρει αὐτό “ogni tralcio che in me non porta frutto, [Dio] lo toglie via”, 15, 2); ma l’ambiguità, o meglio la doppia valenza, del verbo “àirō” (αἴρω), emerge in modo palmare nel passo di Giovanni in cui, la domenica mattina, Maria di Màgdala si reca al sepolcro di buon mattino e vede che la pietra è stata tolta dal sepolcro. La donna corre a riferire la notizia a Pietro e Giovanni: Ἦραν τὸν κύριον ἐκ τοῦ μνημείου (“Hanno tolto/portato via il Signore dal sepolcro”, 20, 2). In seguito, al sepolcro, due angeli si rivolgono così a Maddalena: καὶ λέγουσιν αὐτῇ ἐκεῖνοι· Γύναι, τί κλαίεις; λέγει αὐτοῖς ὅτι Ἦραν (ēran) τὸν κύριόν μου, καὶ οὐκ οἶδα ποῦ ἔθηκαν αὐτόν «Ed essi le dissero: Donna, perché piangi? Rispose loro: Hanno tolto/portato via il mio Signore e non so dove lo hanno messo» (20, 13). In particolare in quest’ultimo passo il verbo ἦραν ha l’evidente doppio valore di “togliere” e di “portare via”; e si noti che in genere il verbo “àirō” (αἴρω) indica che si sta “sollevando, alzando” qualcosa di molto pesante.
Inoltre è significativo il paragone con la traduzione latina “qui tollis peccata mundi”, perché anche il verbo “tollo” ha lo stesso significato principale di “sollevare, prendere su di sé”; basterebbe citare sant’Agostino che nelle “Confessioni”, quando racconta la sua conversione, ricorda la voce che gli suggerì di “prendere” e “leggere” un particolare libro: «tolle lege» (“prendi e leggi”).
L’ambiguità sul verbo “togliere” rimase nell’italiano dei primi secoli, dove era comune, ad es., l’espressione “togliere in moglie” per dire “prendere in moglie, sposare” (“io ho trovata una giovane … la quale io intendo di tôr per moglie”, Boccaccio).
In definitiva, il vero significato dell’espressione “agnus Dei qui tollis peccata mundi” non sembra sia “agnello di Dio che togli i peccati del mondo”, ma “agnello di Dio che prendi su di te il peccato del mondo” (Lutero traduceva “che porti su di te il peccato del mondo”: “Christe, du Lamm Gottes, der du trägst die Sünde der Welt”). In altre parole, Gesù non “toglie” il peccato (connaturato alla natura umana e in un certo senso “ineliminabile”), ma lo fa proprio, “se lo addossa”, diventa capro (anzi, agnello) espiatorio del Male commesso dagli uomini, un po’ come era il “pharmakòs” (φαρμακός) nella cultura greca antica.
Per condividere il problema con una persona competente, mi sono nuovamente rivolto al dott. Gaetano Festa, ex DSGA del Liceo Umberto I di Palermo, presbitero cristiano (con il nome di Padre Giovanni) nella tradizione ortodossa e secondo prete a supporto della Parrocchia San Caralampo martire a Palermo (Eparchia Ortodossa Romena in Italia).
Anzitutto Padre Giovanni mi fa giustamente notare che il latino “qui tollis peccata mundi”, con “i peccati” al plurale, differisce dal greco che parla di “peccato” al singolare (ὁ αἴρων τὴν ἁμαρτίαν τοῦ κόσμου). Così infatti scrive don Cesare De Rosis: «L’Agnello […] portando al sacrificio tutti i peccati del mondo in effetti toglierà il peccato del mondo, ma ciò succederà alla fine dei tempi, non nel secolo. Ora, nel tempo sacramentale, i peccati li “porta”, ma non può “togliere” il peccato, altrimenti renderebbe superfluo il sacramento nel nostro tempo. Secondo me perciò la traduzione di “peccata mundi” è giusto sia al plurale perché nel togliere dobbiamo comprendere anche il “portare”» (“Ecce Agnus Dei qui tollis peccata mundi. Brevi riflessioni”, 27 marzo 2013, cfr. https://sansosti.wordpress.com/2013/03/27/ecce-agnus-dei-qui-tollis-peccata-mundi-brevi-riflessioni/).
Padre Giovanni rileva poi che nella “Divina Liturgia” che la tradizione assegna a San Giovanni Crisostomo, propria delle chiese ortodosse e delle chiese cattoliche “sui iuris” unite alla Chiesa di Roma, nella celebrazione del Rito della “Protesis” (rito della Preparazione e dell’Offerta del pane e del vino) il presbitero, incidendo il pane-prosfora con un piccolo coltello a forma di lancia (che ricorda la lancia del centurione sul Golgota), pronuncia la seguente formula: «È immolato l’Agnello di Dio, che prende su di sé il peccato del mondo, per la vita e la salvezza del mondo», con una traduzione del passo evangelico di Giovanni (1, 29), che appare più corretta (cfr. http://www.ortodossiatorino.net/TestoTrilingue.php?id=233).
In definitiva, conclude Padre Giovanni, «Gesù di Nazareth ha preso su di sé il peccato del mondo, ha – sulla croce – accettato, ancora una volta, dopo l’evento delle tentazioni nel deserto, la sfida dell’Avversario e con la sua resurrezione è caparra ed anticipazione dell’ultima puntata. Quindi non toglie ma toglierà i peccati di tutti noi trasfigurando la nostra natura umana debole e fragile nella pienezza della Theosis/deificazione. Risorge avendo preso su di sé il peccato del mondo, scandito dalle tre tentazioni nel deserto, e con questa teantropia [= carattere contemporaneamente umano e divino della divinità] si prepara allo scontro/incontro finale e alla fine, avendo vinto l’Avversario e la Morte e l’Anticristo che è loro figlio, consegnerà tutto e tutti e tutte trasfigurati e liberati al Padre nello Spirito in cieli nuovi e terre nuove, concrete, effettive e reali e non meramente metafisiche».
In un periodo in cui (come qui mi è già capitato di osservare) sono state inserite nel nuovo Messale Romano, dalla prima domenica di Avvento del 2020, alcune nuove e discutibili traduzioni (es. “pace in terra agli uomini, amati dal Signore” nel “Gloria” e “non abbandonarci alla tentazione” nel “Padre nostro”), c’è da chiedersi perché si sia voluta mantenere una traduzione dell’Agnus Dei che – come si è visto – con tutta probabilità è impropria e, forse, sarebbe dovuta diventare: “Agnello di Dio, che ti addossi/ti prendi/porti con te i peccati del mondo”.
Padre Giovanni associa questa scelta a una sorta di “paura della concretezza”: «Forse lo scegliere “togli” e non “prendi su di te”, “peccati” e non “peccato” è paura della concretezza. E la paura della concretezza si rifugia nella metafisica e con molta difficoltà riesce a parlare al cuore degli uomini e delle donne». In effetti, nella rivista “Famiglia cristiana” del 4 aprile 2017, a un lettore che si chiedeva se non fosse opportuna la traduzione di “tollis” con “prendi su di te”, don Silvano Sirboni rispondeva così: «Sia nel testo greco sia in quello latino il verbo usato significa “togliere” così come “portare su di sé”; una ricca e legittima ambiguità che non poteva essere riprodotta anche in italiano. Si è così preferito mantenere l’interpretazione precedente sia per quanto riguarda il testo biblico sia quello liturgico, come del resto anche in altre lingue. Si è voluto evidenziare l’effetto del sacrificio di Cristo su di noi». Non sembra però una decisione ineccepibile, come si è visto.
Quello che è certo è che, se l’Agnello si è “addossato” sulla croce il “peccato”, la “hamartìa” (ἁμαρτία) del mondo, questa viene però continuamente riproposta dalla fallibile natura umana: ἁμαρτία infatti significa anzitutto “errore, sbaglio” (solo in epoca cristiana passa a indicare la “colpa” e il “peccato”).
Si può certo interpretare il “qui tollis” come un’azione ripetuta e replicata in un eterno presente (“tu che sempre ti addossi…”), ma questo non elimina la costante e nefasta replica del peccato da parte del “mondo”.
Siamo nati “peccatori” (cioè “soggetti all’errore”): “Sono uomo, ho sbagliato, non è strano”, diceva Menandro. E certo non sarebbe male che, quando incappiamo nell’errore, ci sia un altro che faccia da parafulmine per noi, un agnello/capro espiatorio pronto ad assumere su di sé le nostre colpe e a farsene carico. Purtroppo però, più che dagli agnelli, il mondo attuale appare dominato dai lupi: e assai raramente chi “sbaglia” si assume in prima persona la responsabilità del suo “errore-colpa”.
Ottima nota. Complimenti!
La questione è anche teologica. La traduzione corrente presuppone un grave errore teologico sul ruolo di Cristo quale agnello di Dio che in realtà, come tale, non toglie peccati (e come potrebbe?) ma li assume su di sé.
E non è un caso che Lutero traduca correttamente.
Di Pintacuda qui sopra sta scritto aver frequentato il Liceo Andrea D’Oria… il che è impossibile non potendo esistere un tale Liceo e proprio a Genova.
Si tratta di un antipatico errore di ortografia? Io credo di si. Quell’Andrea porta il cognome Doria.
Non è un errore d’ortografia e glielo dimostro subito: l’istituto si chiama D’ORIA con la grafia antica tradizionale; e lo attestano i QUADERNI DEL D’ORIA che presentano inequivocabilmente l’apostrofo. Guardi qui:
https://www.ibs.it/quaderni-del-d-oria-n-libri-vintage-vari/e/2561843088061
Sinceramente ritengo sublime l’argomento!
Una domanda grammaticale: perché nella frase “Agnus Dei, qui tollis peccata mundi, miserere nobis” agnus viene usato in caso nominativo e non vocativo?
E’ un’eccezione, che si riscontra anche nel sostantivo “Deus”: il vocativo è in questi vocaboli uguale al nominativo (cfr. “mi bone Deus”, “o mio buon Dio”).
Grazie per la sua attenzione.
Molte grazie, d’accordo. La particolarità mi sembra questa: mentre il sostantivo “deus” nel latino classico non presentava la forma del vocativo (esistono rare citazioni) e al suo posto il latino cristiano userà appunto il nominativo “deus”, non mi risulta invece che il sostantivo “agnus” mancasse di vocativo. L’uso del vocativo “agnus” nel latino cristiano è forse dovuto ad analogia con “Deus” oppure effettivamente anche “agnus” mancava di vocativo?