Asclepiade nacque a Samo intorno al 320 a.C., ma dopo la giovinezza si trasferì ad Alessandria d’Egitto. Fu uno dei letterati più apprezzati del suo tempo: Teocrito lo elogia nelle Talisie (VII 40) e lo Scolio Fiorentino agli Αἴτια lo inserisce tra i Telchini, gli avversari di Callimaco.
Scrisse prevalentemente componimenti lirici (da lui prendono il nome l’asclepiadeo maggiore e l’asclepiadeo minore, in realtà già impiegati dai poeti lesbici ma da lui reintrodotti nell’uso e utilizzati poi da Orazio). Sono stati tramandati soltanto quarantacinque suoi epigrammi, di cui solo una trentina di sicura attribuzione.
Nell’epigramma che qui ricordo (A.P. XII 50) Asclepiade cerca un rimedio alla propria delusione amorosa, prima rifugiandosi nel vino, poi rammentando a se stesso di non essere l’unica vittima di Afrodite ed Eros. Dopo un’altra esortazione a bere, il poeta conclude che l’unica vera consolazione è la “lunga notte” della morte.
Πῖν’, Ἀσκληπιάδη. Τί τὰ δάκρυα ταῦτα; Τὶ πάσχεις;
Οὐ σὲ μόνον χαλεπὴ Κύπρις ἐληΐσατο,
οὐδ’ ἐπὶ σοὶ μούνῳ κατεθήξατο τόξα καὶ ἰοὺς
πικρὸς Ἔρως. Τὶ ζῶν ἐν σποδιῇ τίθεσαι;
Πίνωμεν Βάκχου ζωρὸν πόμα· δάκτυλος ἀώς.
Ἦ πάλι κοιμιστὰν λύχνον ἰδεῖν μένομεν;
†Πίνομεν, δύσερως†· μετά τοι χρόνον οὐκέτι πουλύν
σχέτλιε, τὴν μακρὰν νύκτ’ ἀναπαυσόμεθα.
Bevi, Asclepiade! Perché queste lacrime?
Ma che cos’hai? Non sei tu solo preda
della spietata Cipride, né solo
su di te Eros amaro tese l’arco
e le sue frecce. Perché ancora vivo
stai tra la cenere? Beviamo il succo
puro di Bacco. Così breve è il giorno!
O aspettiamo la lampada, compagna
del sonno? Ma via beviamo, disperato
amante! Tra non molto
la nostra lunga notte dormiremo.
(traduzione di Salvatore Quasimodo)
L’epigramma si può dividere in due parti di uguale estensione, scandite dal verbo πίνω:
1. il poeta riflette sulla sofferenza provocata dall’amore, ripiegandosi su stesso, come dimostra l’uso della 2a persona singolare dell’imperativo (vv. 1-4);
2. l’attenzione si concentra poi sulla fugacità dell’esistenza, aprendosi ad una prospettiva universale, evidenziata dalla 1a persona plurale del congiuntivo esortativo πίνωμεν al v. 5 (vv. 5-8).
Comune alle due sezioni è l’atmosfera malinconica: l’esortazione iniziale sembra riportare al clima sereno del simposio, in cui i convitati si scambiavano l’invito a bere; ma le due successive incalzanti interrogative (Τί τὰ δάκρυα ταῦτα; Τὶ πάσχεις;), quasi con un effetto inaspettato (aprosdóketon), introducono un sentimento di inquietudine, suggellato dall’interrogativa finale della prima parte (“Perché ancora vivo / stai tra la cenere?”), che permea anche la seconda sezione. Infatti, dopo un ulteriore invito a bere, il lapidario δάκτυλος ἀώς (lett. “il giorno è un dito”), rafforzato dalla frase nominale, introduce il tema della brevità della vita.
Lo spunto è ripreso da Alceo, il quale esortava i suoi compagni di eteria a bere perché “il giorno è lungo quanto un dito” (δάκτυλος ἀμέρα, fr. 396 V., 1); e alcuni critici hanno supposto che la malinconia del poeta, in questo e negli altri epigrammi, fosse solo di maniera; ma basta l’affermazione finale (“tra non molto / la nostra lunga notte dormiremo”) per accorgersi che qui non c’è finzione letteraria, ma vera inquietudine. Se ne ricorderà Catullo nel celebre carme V (Vivamus, mea Lesbia atque amemus): “Soles occidere et redire possunt; / nobis cum semel occidit brevis lux, / nox est perpetua una dormienda”.
L’immediatezza straordinaria di Asclepiade viene colta alla perfezione dal grande Gennaro Perrotta: “qualunque cosa abbia nell’animo, questo poeta sa esprimerlo nella forma più semplice e immediata. Nei suoi epigrammi non c’è erudizione, non ci sono ornamenti, meno che mai arguzie o giochi verbali; ma tutta l’arte consiste in una meravigliosa chiarezza, che ha qualcosa d’archilocheo. Tutto è detto in modo tale, che le parole sembrano insostituibili”.