In occasione del “festìno” di Santa Rosalia i palermitani in genere non rinunciano ai “babbaluci”; per chi non è di qua, va detto che si tratta di lumachine di terra, con il guscio bianco o striato di un colore bruno chiaro.
In genere si raccolgono attaccati (anche in folto numero) a molte piante erbacee o a cardi spinosi. Il periodo in cui si trovano più facilmente va da metà giugno a fine luglio (ma quest’anno c’è stato un certo ritardo, forse anche per alzarne il prezzo…).
Il termine dialettale “babbaluci” proviene secondo alcuni dall’arabo “babush”, che indicava le “babbucce”, cioè pantofole di pezza con la punta rivolta verso l’alto; altri credono (più verosimilmente) nella provenienza dal greco “boubalàkion” (“piccolo bufalo”), diminutivo di “boùbalos” (βούβαλος, “bufalo”) a cui il “babbalucio” sarebbe paragonato per via delle corna; una terza ipotesi ipotizza un riferimento alla “bava” lasciata dai “babbaluci” nel loro lento cammino.
Comunque sia, il consumo alimentare dei “babbaluci” risale a epoca antichissima (già Greci e Romani nel I secolo a.C. li allevavano). Erano usati anche a livello terapeutico, per guarire le congiuntiviti, alcune patologie della pelle, il mal di fegato e persino l’esaurimento nervoso: in tal senso esiste un motto siciliano, “babbaluci a sucari e fìmmini a vasari nun ponnu mai saziari” (“non ci si può stancare mai di succhiare ‘babbaluci’ e baciare donne”), che conferma il valore psicologicamente “tonificante” del consumo dei “babbaluci”.
Ancora oggi con la bava di lumaca si preparano trattamenti contro le rughe, le macchie della pelle, l’acne e le cicatrici (che cosa non si fa per l’estetica…).
Dal punto di vista nutritivo, i “babbaluci” contengono pochi grassi e proteine in quantità analoga a quelle del pesce; si cuociono con aglio soffritto nell’olio, conditi con abbondante prezzemolo e pepe (“cu l’agghia ‘ngranciata”).
Per mangiarli, molti utilizzano gli stuzzicadenti per estrarre il mollusco, ma il palermitano doc li mangia “c’u scrusciu” (cioè provocando il “rumore” del mollusco risucchiato): infatti, per far uscire la lumaca dal guscio, pratica con un dente incisivo un piccolo foro sulla chiocciola nella parte opposta all’apertura, così da “risucchiare” il mollusco nel canale d’aria così creato.
Chi cuoce i “babbaluci” lo fa a fiamma bassissima, di modo che i poveri molluschi esalino l’anima lentissimamente, senza avere tempo di rifugiarsi all’interno del guscio. Ecco infatti una ricetta per cuocere i “babbaluci”: «Mettere a bagno le lumache per un’ora in modo da farle uscire dal guscio, copritele con un coperchio. Trascorso questo tempo lavatele ripetutamente sotto l’acqua corrente fino a quando l’acqua non risulterà pulita. Mettetele in un tegame capiente copritele d’acqua e chiudetele con un coperchio, lasciatele riposare circa mezz’ora. A questo punto mettete sul fuoco a fiamma bassa e non appena saranno tutte fuori dal guscio, aumentate la fiamma e portate a bollore. Far cuocere per 15 minuti, quindi scolarle e metterle da parte. Intanto preparate un soffritto con abbondante olio e l’aglio tagliato a pezzettini, a parte pulite e sminuzzate il prezzemolo. Ponete le lumache in una ciotola capiente salate e pepate, aggiungete l’aglio soffritto e il prezzemolo, mescolate tutto e servite!» (cfr. www.palermoviva.it). In effetti la ricetta eseguita a regola d’arte richiede che a fine cottura le lumache si presentino tutte “chi cuorna nisciuti ri fuora” (“con le corna uscite di fuori”).
Poveri “babbaluci”, dirà qualcuno; ma la grande cantante siciliana Rosa Balistreri in una sua canzone riconosceva anche ai piccoli “babbaluci” la possibilità di fare grandi cose e di provocare anche danni: «Vidi chi dannu ca fannu i babbaluci / ca cu li corna spìnciunu balati! / Si unn‘era lestu a jittàrici na vuci, / vidi chi dannu ca facìanu i babbaluci» (“Vedi che danno fanno le lumachine / che con le corna spingono lastre di marmo! / Se non ero svelto a gridargli contro, / vedi che danno avrebbero fatto le lumachine”).
Per completezza, va detto che in Sicilia, oltre ai “babbaluci”, si consumano anche lumache più grandi e ancor più appetitose, cioè i “crastoni” o “crastuna” (“Helix vermiculata”), rigati e grossi quanto una prugna. Si trovano preferibilmente dopo le prime piogge (a proposito, esistono più, in questo mondo surriscaldato e stravolto, le “prime piogge”?), ma vengono anche allevati: alcune ditte ne ricavano grossi guadagni (un ettaro può produrre un fatturato di 50 mila euro l’anno). Sono cucinati “a picchi pacchi”, cioè col pomodoro pelato.
Ancora più saporiti sono gli “attuppateddi” (della famiglia “Helix naticoides”), caratterizzati da un “tappo” creato da loro stessi con la bava, che forma un velo bianco “attuppando” (cioè “chiudendo”) l’apertura della conchiglia; a quanto pare lo fanno per difendersi dall’anticiclone “Caronte” di turno, rifugiandosi sotto terra e arrivando anche a mezzo metro di profondità. Si possono cucinare in vari modi e nelle varie zone dell’isola hanno nomi diversi (ad es. a Messina li chiamano “stuppateddi”).
In conclusione, per quegli infelici schizzinosi che si “schifìano” a sentir parlare di lumache mangerecce, va ricordato che in altre nazioni europee esse sono un piatto raffinatissimo ed esclusivo, non a caso presente nei “menu” dei ristoranti stellati (si pensi soprattutto alle squisite “escargots” francesi: le “escargot a la Bourguignonne” sono un piatto prelibato che giustifica, da solo, l’esistenza in questa valle di lacrime).
Meglio, comunque, che esistano questi “scucìvuli” refrattari ai “babbaluci”: ne lasceranno di più ai loro estimatori, che non si lasceranno certo pregare.