Una delle località più celebri e incantevoli della Sicilia è la “Scala dei Turchi”, una bianchissima falesia rocciosa che si erge a picco sul mare lungo la costa di Realmonte, in provincia di Agrigento. Il nome le è venuto dalle antiche incursioni dei pirati saraceni, soprannominati genericamente “Turchi”; costoro, infatti, trovavano riparo in questa zona meno battuta dai venti, che costituiva un approdo sicuro.
La Scala (che dunque per i Siciliani non è un teatro lirico…) è costituita di “trubi”, rocce sedimentarie di probabile età pliocenica, in parte calcaree e in parte argillose, costituite prevalentemente da gusci di microfossili (foraminiferi planctonici) depositatisi per decantazione nell’ambiente marino. Questa curiosa scogliera si erge tra due spiagge di sabbia fine; per accedervi si procede lungo il litorale e poi ci si arrampica per una salita somigliante a una grande scalinata naturale di pietra calcarea. Dalla sommità della scogliera il paesaggio abbraccia la costa agrigentina fino a Capo Rossello.
La Scala dei Turchi è diventata negli ultimi vent’anni una vera e propria attrazione turistica, sia per l’aspetto straordinario, sia per la popolarità acquisita dai romanzi di Andrea Camilleri che hanno per protagonista il commissario Montalbano.
La suggestiva località viene descritta nel racconto “La prima indagine di Montalbano” (2004), che dà il titolo all’omonima raccolta ed è ambientato nel 1985, allorché il giovane Montalbano, in qualità di vicecommissario, viene spesso trasferito da un paese all’altro.
Come Camilleri scrive nel racconto “La veggente”, Montalbano “aveva trentadue anni, allora, e lo usavano come una specie di commesso viaggiatore: a ogni cangio di stagione lo trasferivano da un paese all’altro ora a fare una sostituzione, ora a tappare un buco, ora a dare una mano d’aiuto in una situazione d’emergenza. Ma i quattro mesi di Carlòsimo furono i peggio di tutti. Era un paesotto di collina dove ragionevolmente non avrebbe dovuto farci tutto quel freddo che sempre ci faceva e invece un misterioso incrociarsi e combinarsi di eventi meteorologici faceva sì che uno a Carlòsimo il cappotto pisanti e la sciarpa non se li levasse mai, a momenti manco quando andava a corcarsi”
Ancora peggio il giovane vicecommissario si trova poi a Mascalippa, un immaginario paese sui monti Erei, nel quale si sente profondamente smarrito, perché “era omo di mare”. Anche qui a tormentare Montalbano (da sempre incurabilmente meteoropatico) è soprattutto il clima rigido e umido: “Aviva affittato un quartino di dù cammare, bagno e cucina propio in centro al paisi. Non c’era riscaldamento e a malgrado delle quattro stufe elettriche sempre addrumate certe sirate di ‘nvernu l’unica era di andarsene a corcari e, incuponato, tenere fora dalle coperte un vrazzo solo a reggere un libro”.
Ben presto però, grazie al (non richiesto) interessamento della sua fidanzata di allora, Mery, insegnante di Latino a Catania, Montalbano – appena promosso commissario – apprende il nome della sua futura sede: Vigàta (che, come è noto, nella finzione dell’autore rappresenta il suo paese natale, Porto Empedocle).
La notizia è accolta con grande gioia dal giovane, che decide di fare un’esplorazione della sua nuova sede e un giorno si reca, da solo, a Vigàta.
La cittadina non è più quella di un tempo, ma ammalia ugualmente il giovane con l’aria di mare, gli odori del porto, il fascino dei ricordi. Dopo il suo primo pranzo alla “Trattoria San Calogero”, con un freschissimo menu a base di pesce che gli fa dimenticare la pesante cucina montana di Mascalippa, Montalbano inaugura quello che diventerà un suo immancabile rituale: la passeggiata dopo pranzo sul molo, fino allo scoglio piatto che sarà il suo rifugio preferito. Un’escursione alla “Scala dei Turchi” conclude una giornata serena, al termine della quale il commissario è incantato (“affatato”), stordito (“sturduto”) dai colori accecanti, paragonati con potente sinestesia a “vere e proprie grida”; e si sente felice.
Ma cediamo la parola a Camilleri, che descrive così l’impatto visivo ed emozionale di Montalbano: “Passato un promontorio, la Scala dei Turchi gli apparse ‘mprovisa. Se l’arricordava assai più imponenti, quanno si è nichi tutto ci appare più granni della realtà. Ma anche accussì ridimensionata conservava la sua sorprendente billizza. Il profilo della parte più alta della collina di marna candida s’incideva contro l’azzurro del cielo terso, senza una nuvola, ed era incoronato da siepi di un verde intenso. Nella parte più bassa, la punta formata dagli ultimi gradoni che sprofondavano nel blu chiaro del mare, pigliata in pieno dal sole, si tingeva, sbrilluccicando, di sfumature che tiravano al rosa carrico. Invece la zona più arretrata del costone poggiava tutta sul giallo della rina. Montalbano si sentì sturduto dall’eccesso dei colori, vere e proprie grida, tanto che dovette per un attimo inserrare l’occhi e tapparsi le orecchie con le mano. C’era ancora un centinaio di metri per arrivare alla base della collina, ma preferì ammirarla a distanza: si scantava di venirsi a trovare nella reale irrealtà di un quadro, di una pittura, d’addivintare lui stesso una macchia – certamente stonata – di colore. S’assittò sulla sabbia asciutta, affatato. E accussì stette, fumandosi una sigaretta appresso all’altra, perso a taliare le variazioni della tinteggiatura del sole, via via che andava calando, sui gradoni più bassi della Scala dei Turchi. Si susì al tramonto”.
Per Montalbano il ritorno nel suo habitat naturale è riuscito perfettamente: e l’“omo di mare” caccia via definitivamente il disagio del “montanaro” morto di freddo.