Continuiamo la rassegna di vocaboli del dialetto siciliano che vengono compresi e utilizzati anche nell’italiano regionale dell’isola e quindi nella conversazione quotidiana.
Eccone altri quattro.
1) “Assintato” – Secondo Vincenzo Mortillaro, un abito è “assintatu” se è “stretto alla vita un po’ troppo”; in effetti, se un capo di abbigliamento (ad es. un golf) che ci hanno regalato risulta “assintatu”, l’unica ancora di salvezza è lo “scontrino di cortesia” che ci permette di andare al negozio per farcelo sostituire con un altro più comodo.
2) “Casciabanco” – Nelle abitazioni siciliane “’u casciabbancu” era una “cassa a foggia di panca” (Mortillaro), la “cassapanca”. In epoche passate, antecedenti all’“ikeizzazione” dei mobili, la cassapanca era di uso comune: vi si metteva la biancheria della dote delle ragazze, vi si collocavano plaid e scialloni, vi si conservavano libri antichi, giocattoli disusati, oggetti dal valore affettivo importante e dall’utilità nulla.
Il termine “casciabanco” però viene usato, con estensione del termine, per indicare qualcosa di inutilmente ingombrante: “E che è ‘sto casciabanco? Levalo!”.
Ricordo che a casa dei miei suoceri c’era, negli anni Ottanta, una monumentale macchina da scrivere risalente forse al periodo della guerra; eppure questo “casciabanco”, che era diventato più che altro un soprammobile da museo, mi tornò utile in momenti di emergenza, in quell’epoca ancora pre-computerizzata; e con quel “casciabanco” mi capitò di scrivere pagine e pagine delle mie prime pubblicazioni. Aspettate, dunque, a buttare via certi “casciabanchi”: potreste pentirvene e rimpiangerli.
3) “Cùnsulu” – Nel IV capitolo dei “Malavoglia” di Verga, quando gli abitanti di Aci Trezza entrano nella casa dei Malavoglia per far loro le condoglianze per la morte in mare di Bastianazzo, c’è un esplicito riferimento all’usanza del cosiddetto “cùnsulu”: «Gli amici portavano qualche cosa, com’è l’uso, pasta, ova, vino e ogni ben di Dio, che ci avrebbe voluto il cuor contento per mangiarsi tutto, e perfino compar Alfio Mosca era venuto con una gallina per mano».
Era consuetudine dunque che, per “consolare” la famiglia a lutto, distrutta dal dolore e quindi impossibilitata a pensare alle basse esigenze del cibo, il vicinato provvedesse a cucinare abbondanti libagioni (pasta, carne, pesce, contorni vari, persino dolci) che venivano poi consumate in tavolate affollate, a pranzo e a cena. Il “cùnsulu” comprendeva anche, ovviamente, un’abbondantissima prima colazione (caffè, latte, biscotti, “vasteddi” con ricotta, sfincionelli, ecc.).
Di questa usanza ho un ricordo preciso. Quando nel 1977, a Bagheria, morì mio zio Nino, mio padrino di battesimo, tutta la famiglia Pintacuda, riunita nella casa di Via Litterio, consumò per diversi giorni l’abbondante “cùnsulu” quotidianamente portato dai vicini; e io mi meravigliavo di quelle quotidiane imbandigioni, degne di un pranzo di Natale, chiedendomi quanto fossero coerenti con le altre funeree imposizioni collaterali (ad es. quella di vestirsi a lutto, di astenersi dal vedere la televisione o dal sentire canzonette alla radio, ecc.).
Oggi l’usanza non è del tutto scomparsa, soprattutto nei paesi siciliani, ove sussiste qualche forma di rapporto umano fra i vicini di casa. Su questi usi legati al lutto in Sicilia, chi fosse interessato può leggere un articolo in proposito su questo blog: https://pintacuda.it/2023/02/10/quando-ci-si-vestiva-a-lutto/.
4) “Pistuluna” – Forse qualche “continentale”, pensando a certi cliché mafioseschi sulla Sicilia, penserà che si parli qui di qualche alternativa alla classica “lupara”, con riferimento magari a dei grossi revolver ad alto calibro. Niente del genere: “’u pistuluni” è un pane casareccio, a forma di filone o di bastoncino, più diffuso nei paesi (ottimi quelli di Monreale). A Bagheria compravamo dei “pistuluna” di un chilo, saporitissimi, profumati, spesso cosparsi di grani di sesamo (“cimino”).
Il fatto è che i siciliani, e i palermitani in particolare, adorano il pane: non a caso se una persona è apprezzata e stimata, si dice che “è bonu com’u pani” (“buono come il pane”).
Forse a causa dei secoli di fame nera sofferti in passato, oggi il massimo terrore del palermitano medio è rimanere “senza pane”: “scìnniri ad accattari ‘u pani” è esigenza improcrastinabile e ineludibile.
Gravissimo disonore è, poi, invitare a cena qualcuno senza fargli trovare un cestino stracolmo di pane (che, inevitabilmente, resterà quasi intonso, soprattutto da parte delle nuove generazioni). E tuttavia “buttare il pane” appare ancora oggi quasi come un reato, un’offesa alla fame e alla sfortuna; sarà che “buscarsi il pane” è, giustamente, l’obiettivo di tanta gente che giornalmente combatte contro la disoccupazione, la sottoccupazione o lo sfruttamento in nero.
«Va’ bùscati ‘u pane» (“Vai a guadagnarti il pane”) è la raccomandazione più normale e l’auspicio più bello che un padre possa rivolgere al proprio figlio: queste esatte parole, nel film “Baarìa” di Peppuccio Tornatore (2009), sono per l’appunto rivolte dal protagonista Peppino Torrenuova a suo figlio che parte in treno per cercare fortuna.